«Vorremmo che la gente guardandoci, ascoltando questa nuova lingua, pensasse di trovarsi di fronte a uno spettacolo di extraterrestri» dice Marco Valerio Amico, mentre Rhuena Bracci lo guarda e acconsente, e sentiamo in lontananza il sorriso dei Fanny&Alexander, anche loro alla ricerca di una lingua impossibile, sulle tracce di Landolfi, verso un amore che in due atti si esprime e non si esaurisce ancora.
«Voglio tendere a qualcosa che non esiste, che non si vede, che non può essere» spiega Eva Geatti, agitando il bicchiere di birra e sgranando gli occhi, pensando all’audi del nonno parcheggiata in un teatro, con un coniglio mannaro che dall’alto, dietro una recinzione semiaperta di neon, mangia un panino vegetariano.
«Si vuole destrutturare, inserire personaggi reali e irreali per far crollare le certezze», «e porre lo spettatore sulle soglie del sogno», durante l’intervista Diana Arbib e Luca Brinchi si completano le frasi a vicenda, raccontando dei loro androidi in forma di ologrammi, figure piatte che pure sostituiscono l’uomo nelle perfette apparenze di tridimensionalità, atteggiamento, sguardo.
Artisti, tutti loro, che rincorrono il teatro attraverso un corpo simile a un vaso, riempito da ciascuno con vita, sensibilità e paure che collidono e frantumano significati, convenzioni, condizioni. Senza contratti determinati, senza parole chiuse, senza certezze da svendere al primo spettatore. Ma con dubbi da riformare, domande che rimbalzano tra palco e platea, l’insicurezza che regola, per ora, quest’investimento a fondo perduto e fonda, a dispetto di tutti, un teatro che pur non esistendo resiste.
«Ipercorpo è rimbalzato da Roma a Forlì, non è proliferato, quindi questa edizione potrebbe essere l’ultima. Una bella parola è autodeterminazione. C’era la volontà di costruire un percorso comune, di conoscersi, rispettando le differenze dentro alle affinità di metodo». Claudio Angelini, numero Zero di visioni.in.quiete, Ipercorpo Anno Tre.