In un video distribuisci dei volantini, in italiano e in francese, con la tua foto e, sotto, la frase: “Mi sto cercando. Se anche tu ti sei perso lascia un messaggio”. Come hai vissuto questa esperienza?
Lo spettacolo è tutto preso dal presente, da quello che succede, da quello che vedo, che gli altri vedono e hanno vissuto. È un po’ la forza e il diavolo di questo spettacolo. È difficilissimo da fare perché non bisogna essere attori, ma esserci e basta. Il volantino è un mezzo che crea un legame con le persone e il presente. Se fossi io a ricevere il volantino mi farebbe riflettere molto. Ormai viviamo in un’epoca storica in cui abbiamo tutte le risposte, abbiamo un dizionario di risposte. Ma non abbiamo più domande intelligenti da fare. Quando hai in mano questa cosa, volente o nolente ti fai una domanda: dove sono veramente in questo momento? Non lo so più dove sono, è la risposta. Solitamente mi risponde l’artista, con la frasetta a effetto, ma un povero stronzo come me non risponde, anche se quella domanda se la fa in continuazione.
Dopo tutto questo lavoro hai avvertito un cambiamento in te stessa? Ti è servito?
Sono molto stanca dopo questo lavoro: non ho mai lavorato così tanto come con i Motus. C’è molto materiale che viene buttato via per il risultato finale. La cosa assurda è che non vengono tenute le cose più forti. Diversamente da Rumore rosa, qui lo spettacolo, il macchinone, vuole solo certe cose e se tu fai una cosa leggermente fuori dagli schemi si nota subito. Per esempio Mario (Ponce-Enrile) è un ballerino di break-dance che fa venire i brividi, ma non si può usare perché sarebbe troppo. E quindi siamo sempre tutti molto contenuti sulla scena. Ho imparato a contenermi, la cosa più difficile che potessi fare. Il mondo ha questa esigenza che tu dia il massimo, sia sempre al top della prestazione. E invece questo spettacolo ti insegna a essere il “poco” che sei. Perché poi siamo “poco”. È inutile prendersi in giro: ognuno di noi è “poco”. Il difficile è far vedere quel “poco” che siamo, che è meraviglioso. Sarebbe più che sufficiente e invece impazziamo, siamo sempre nevrotici per raggiungere il massimo. È banale, ma sono stufa di questo Occidente che mi sta triturando, che mi chiede sempre “tanto”.
Che cos’è il mantello?
Se facessi la stessa domanda a Enrico (Casagrande) e Daniela (Nicolò) ti risponderebbero in due modi diversi. È un segno molto forte, ma per ognuno ha un valore diverso. Per me il mantello è molto nostalgico e commovente. È quel supereroe che potrei essere, che ho sempre sognato di essere e che invece non sono. Appartiene alla dimensione del sogno: la possibilità di poter volare, di poter scivolare sopra le cose, sopra il pantano che c’è. Ce l’avrai anche tu un mantello, ce l’abbiamo tutti. Poi ti vergogni a tirarlo fuori perché per te sono super poteri, ma per gli altri sono una cosa che fa anche ridere. Questo spettacolo è pieno di piccole cose. Non è che ci siano grandi macchine, a parte il grande schermo che per me è misterioso e meraviglioso.
Nicola Villa, Francesca Giuliani