Chiusi dentro una gabbia da zoo, in un sorta di spettacolo da baraccone, troviamo il demiurgo/narratore, lo scienziato e la bella maga, vestiti in abiti ottocenteschi, che inscenano uno spettacolo/lezione sulla nascita dell’elettrostatica. Tra loro sembra svilupparsi nel corso dell’opera una sorta di tensione erotica, che avrà esiti tragici, tutto ciò però sembra far parte di un sotto testo, di un non detto, in un spettacolo dove la parola tenta di “dominare” la scena, cercando di eludere ciò che invece rimane nascosto, magico. L’elettricità, una delle componenti fondamentali della nostra pragmatica contemporaneità, viene qui affrontata nei suoi primordi, quando lo scarto tra la spettacolarità magico/cialtrona e lo stupore “religioso” dei primi esperimenti fatti nel corso del 700, si ritrovano nella ricerca di un assoluto che deve scontrarsi con gli strumenti scientifici, gli oggetti della vita. Lo spettacolo in sé, sembra avere al suo centro il problema stesso del fare arte, trovando l’unica via percorribile nella sperimentazione. Ed è qui che l’incontro-scontro con la scienza diviene fondamentale. Il fatto di interrogare continuamente la realtà, nelle sue crepe oscure e avanzare nel percorso giungendo alle sue conseguenze estreme, vuol dire fondamentalmente adottare un principio non autoritario, egalitario con la realtà non sapendo ciò che ci aspetta alla fine del percorso con il rischio di affrontare con utopica incoscienza una via che giunta al suo termine rivela la mancanza di senso. L’opalescenza e la vivacità dell’esistente si scontrano inevitabilmente con la necessità della prospettiva e della ragione, che rischiano però di imbavagliare la vita. In sostanza sembra che un’utopia non possa sussistere senza un programma che però inevitabilmente la trasforma in austera teoria o in mera utilità, senza trascendenza, né grazia. Oggi, nel momento in cui la scienza domina, l’Arte è respinta ai margini (resistendo in forma sperimentale) e rischia di risultare innocua perché considerata come un qualche cosa di “interessante” (ossia senza conseguenze), che ha perso un legame diretto con la nostra vita. Sostanzialmente l’aura di stupore dei primi esperimenti di elettrostatica, che spingevano la curiosità verso l’oggetto sconosciuto, cercandovi un oltre, è eliminata dall’invenzione della “lampadina”. Lo spettacolo finisce infatti con la rottura di questo stato ibrido tra la semplificazione astratta e arida del discorso e l’atto pratico dell’esperimento. Lo scienziato punta la pistola contro il narratore, ma nel momento clou ci viene tolta la facoltà di vedere (quindi di conoscere e capire), in quanto sulla gabbia scende un telo. In quel momento udiamo uno sparo e quando riacquistiamo la capacità di vedere la scena, vi troviamo solamente il narratore che impugna la pistola, mentre lo scienziato è scomparso. Il narratore (dietro il quale si cela in realtà una personalità doppia di narratore e filosofo) si erge come vincitore dello scontro. Ma i dubbi rimangono. È l’arte che ha vinto la scienza, o è l’illusione che, sganciata dalla finalità delle cose, può regnare nel terreno dell’immaginazione, libera nella capacita di sperimentare?
Jan Mozetic