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INTERVISTE > Al margine di X (ics). Conversazione con Daniela Nicolo' e Enrico Casagrande

Attenzione a spazi e luoghi, a interni e esterni: questa forse la principale caratteristica del lavoro di Motus. Ogni spettacolo teatrale ha innescato una riflessione sulla propria architettura, sullo spazio attraverso cui immaginarsi altre possibilità e nuove forme di relazione. Per rappresentare i grandi cambiamenti e le grandi trasformazioni che viviamo o per svelare e mettere in discussione i meccanismi del teatro, la scena di Motus nel corso degli anni si è continuamente aperta all’esterno. Nel progetto Rooms il teatro si trasformava in una camera d’albergo munita di bagno dove si intrecciavano tante storie di un occidente in declino. In quel caso lo spazio asettico di una camera d’albergo, un non-luogo della modernità, per citare il celebre studio di Marc Augè, era lo spazio scelto per osservare, mostrare, raccontare. Con il progetto  Pasolini l’orizzonte è mutato radicalmente e attraverso l’occhio della telecamera il teatro, in particolare in Come un cane senza padrone, ha ospitato le periferie romane e napoletane. Si trattava di un viaggio in automobile, con sottobraccio il pensiero e le parole di Pasolini, un viaggio in zone di confine e marginali, in periferie sulle quali adesso tanto si discute e ci si interroga. Il progetto X (ics) – Racconti crudeli della giovinezza prosegue dunque un lavoro di indagine sugli spazi marginali attraverso il filtro di un’età - l’adolescenza e la giovinezza - e tramite ancora una volta l’utilizzo fondamentale del video. In questo caso l’attenzione è soprattutto rivolta a osservare un territorio in grande trasformazione e caratterizzato da quello che Rem Koohlaas chiamerebbe il junkspace, lo spazio-spazzatura, le architetture che hanno rinunciato a una relazione ancora umana tra individuo e spazio. Ma la riflessione di Motus, sulla scorta del Manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément, prova a rilanciare il discorso, mostrando soprattutto le aree residuali, dove inaspettatamente sembra ricomparire la natura. Oltre alla zona di Rimini sono state scelte la periferia di una media città francese, Valence, e alcune aree di Halle nella ex Germania Est. Fisiologica prosecuzione del progetto X(ics) non poteva essere dunque che la realizzazione di alcune opere video. Ics_Note per un film, Run e il parallelo percorso fotografico Ricognizioni sull’incolto. Slide-slow-show sono lavori che mettono a fuoco in modo molto evidente le intenzioni, i desideri e le riflessioni di un gruppo che continua a muoversi e a interrogarsi sulla realtà che viviamo. 



Il progetto X (ics), come altri vostri lavori precedenti, è contrassegnato da un viaggio, da uno spostamento anche fisico alla ricerca e alla scoperta di altri luoghi e altre realtà. In particolare i video che presentate per questa edizione del Riccione TTV sono marcati in profondità da un desiderio di movimento. Il punto di partenza è comunque la zona di Rimini, luoghi a voi molto familiari…


Daniela Nicolò – X (ics) è un progetto che vuole restare aperto e che guarda anche ad altre città, sia straniere (come Valence e Halle), sia italiane (andremo anche a Napoli, a Scampia). Il punto di partenza è effettivamente Rimini, perché è lì che viviamo, ma soprattutto perché ha una sua particolarità territoriale. Per molti versi Rimini è una città “esplosa”, una città “diffusa” e ha in sé tutta una serie di elementi che poi in forme diverse e mescolate troviamo in altri luoghi. È una zona ad esempio che ha pochissime tracce dell’ante-guerra, perché ha subito pesanti bombardamenti.

È dunque una città artificiale ricostruita in modo selvaggio, senza piano regolatore e ancora adesso è in questa fase di continua trasformazione. Anche la campagna, l’entroterra, l’area marina sono zone sempre più mescolate e non è difficile trovare un grosso centro commerciale con accanto magari una casetta o un rudere dove c’è il contadino che lavora la terra. Tutta l’area cuscinetto tra mare e collina, tra città ed entroterra è in perenne cambiamento per effetto di un’edilizia che non segue nessun tipo di regola. Rimini è una città segnata profondamente da questa radicale trasformazione e da una profonda rimozione rispetto al passato. Naturalmente c’è un centro storico, ma i suoi monumenti, come l’arco di Augusto o il ponte di Tiberio, appaiono sempre più come strutture finte, disneyane, perché non hanno più alcun rapporto con l’area nella quale sono collocate.


Esistono tracce di un passato più recente?


DN- Le uniche tracce sono le colonie marine, sulle quali stiamo appunto lavorando. In realtà non ne sono rimaste molte e anche quelle dell’area di Riccione, che abbiamo ripreso in Run, presto saranno completamente ristrutturate. La Colonia Reggiana, nella quale presentiamo tutte le varie installazioni video, è destinata a diventare nei prossimi anni un resort. Anche un’altra colonia, la Grande Novarese, diventerà un centro benessere gigantesco. E tra centri commerciali e tra centri benessere quest’area si sta di nuovo trasformando in maniera radicale.

Per quanto riguarda invece la zona nord di Rimini, verso Bellaria, dove abbiamo girato una parte di Ics_Note per un film, alcuni edifici continuano a funzionare ancora per un turismo infantile. Un tempo le colonie appartenevano alle grandi fabbriche del Nord ed erano destinate a essere i luoghi di vacanza per i figli degli operai dell’Enel o della Fiat. Adesso sono soprattutto i luoghi di vacanza per i poveri dell’est Europa.


Enrico Casagrande - Tutta una serie di strutture è stata poi dedicata alle persone diversamente abili, ed è impressionante come nel mese di giugno si veda quel tratto di mare pieno di carrozzine e di macchinine elettriche. Alcune di queste colonie sono state trasformate come centri di recupero motorio, in particolare per gli handicappati. Non è certo un luogo pensato per essere un ghetto, ma alla fin fine in parte lo è. Avevamo anche noi una colonia che utilizzavamo come magazzino e abbiamo avuto modo di conoscere molte bene la zona. Sono i margini di una città diffusa e sono luoghi dove spesso si rifugiano gli immigrati. Rimini è una città che si consuma moltissimo, non esiste nulla ad esempio di archeologia industriale, tutto è stato ritrasformato velocemente.



E queste zone marginali da chi sono abitate?


DN - Sono luoghi dove molti piccoli gruppi musicali hanno le loro sale prove, sono aree residuali che accolgono quelli che in un certo senso non trovano una propria collocazione. Nel nostro lavoro abbiamo comparato questo tipo di spazio all’età della giovinezza anche perché sono luoghi frequentati spesso dai ragazzi. In più queste aree nelle cartine topografiche non hanno un nome e sono segnalate in bianco, perché sono “in attesa” di essere riconvertite in qualcosa. Avendo trascorso qui la mia giovinezza conosco benissimo questi luoghi che sono aree un po’ fuori controllo, in cui ci si incontrava per fare di tutto, dalle droghe, agli incontri amorosi, agli incontri di gruppo, alle prime feste.


EC - Rispetto ad altre città che stiamo frequentando, Rimini è ovviamente quella conosciamo meglio, ma è anche quella a cui abbiamo voluto dare uno sguardo un po’ diverso, proprio per la sua caratteristica di essere una città lineare che per noi va, anche fisicamente, da Cattolica a Ravenna o a Cesena a seconda della strada che prendi. Abbiamo veramente cercato di mostrare una parte di quello che c’è al margine di questa città, tutto quello che ha perso di interesse e che si sta trasformando, anche per il ritorno della natura soprattutto nelle aree dismesse.


Questi sono i luoghi che raccontate in Ics_Note per un film, in Run e nei due spettacoli teatrali (ICS. Racconti crudeli della giovinezza) e ogni volta le figure che appaiono sono abbozzate, trattate più come presenze che non come personaggi…


DN - Quello che stiamo cercando di fare è anche una sorta di travaso tra interno ed esterno. Non c’è infatti in Ics un lavoro psicologico sui personaggi, un lavoro approfondito sui caratteri, si cerca piuttosto di far riflettere queste figure sui paesaggi, sui panorami. Preferiamo adesso lavorare per associazione. Anche in questo senso abbiamo scelto uno sguardo in movimento, uno sguardo che è quello di Silvia Calderoni che si muove sui pattini. È uno sguardo evidentemente diverso da quello in automobile, che avevamo scelto per altri progetti, ad esempio in Come un cane senza padrone. Il rapporto è adesso più fisico rispetto agli ambienti, agli odori, all’accidentalità del terreno, al rumore, ai suoni, alla percezione dei particolari.


In Ics_Note per un film a un certo punto dal bianco e nero si passa al colore, in un momento dove si mostra un corpo, un rapporto fisico…


EC – Abbiamo deciso di far passare il colore, nel luogo più naturale, vale a dire in una cava lungo il Marecchia. Un luogo riconquistato dalla natura ma con forti segni umani ovviamente. Volevamo che la ghiaia, il ferro arrugginito esplodessero con il colore. Sono ovviamente commistioni che ci possiamo permettere in un contesto di “note”, di esperimento. Sentivamo che avevamo bisogno del colore, anche perché effettivamente è l’unica scena in cui si manifesta un corpo anche nella sua nudità.


In Run il paesaggio scorre in modo molto orizzontale. Si segue la corsa sui pattini di una giovane ragazza (Silvia Calderoni), ma è soprattutto interessante la frizione che innescate. Perché Silvia è portatrice di un’estetica che potremmo dire genericamente legata a un’idea di contemporaneo, mentre il paesaggio attraversato rimanda irrimediabilmente a un passato. Nel senso che la ragazza sui pattini dà senza dubbio un’idea di presente e di futuro, mentre l’orizzonte è quello di luoghi legati, almeno nella funzione originaria, a un passato ormai concluso, ma che forse sono ancora vivi in altre forme…


DN - Questa è la diatriba di tutto il progetto. Abbiamo scelto di portare dentro questo orizzonte delle figure come Silvia Calderoni, Mario Ponce-Enrile, Sergio Policicchio, che si muovono così anche nella vita. C’è un contrasto feroce che viviamo tutti i giorni e abbiamo scelto Silvia proprio come messaggero, come guida, come Zelig. È lei la portatrice di questo “qui e ora”, anche se ha un abbigliamento un po’ eccentrico. È una figura che ha continue trasformazioni, addirittura diventa un supereroe un po’ ridicolo nella tappa di Valence. Abbiamo provato dunque a metterla in ascolto e a farle assorbire i segni dei luoghi e a ritrasformarli secondo il suo modo specifico di “stare” e di “vestire”. È come se guardassimo attraverso il suo sguardo e proviamo a calarci dietro di lei e a seguire il suo corpo, i suoi movimenti, sempre nel vuoto, nella solitudine.


EC – Abbiamo cercato di lavorare su una neutralità, nel senso che Silvia di per sé non rappresenta niente, non è nemmeno il personaggio che vuole scoprire luoghi sconosciuti. Lei vive quegli spazi, li abita, vive il respiro di quei luoghi, non vuole nemmeno tanto capirli, ma cerca di riempirsi di questo sguardo.


Vuoto e solitudine sembrano le cifre distintive dei diversi lavori. In particolare in Run vediamo solo lo scorrere delle macchine e le architetture, ma a parte Silvia non ci sono figure umane…


DN – Sono luoghi che la gente non percorre a piedi, ai margini della città - ma non solo - la gente si muove sempre in macchina. A piedi in realtà si procede solo nel centro storico o in piccoli giardinetti. Così le automobili diventano degli oggetti in movimento, delle cose estranee, che procedono secondo altri ritmi. Noi abbiamo scelto una velocità intermedia come quella del pattino, che non è né la lentezza della passeggiata, né la velocità della strada: abbiamo scelto un’altra velocità. Comunque la strada c’è sempre e stride sempre di più. Pensa anche a Ics: nel Secondo movimento, abbiamo ricreato sulla scena una strada invisibile, di cui sentiamo solo il rumore. È qualcosa che ti apre molteplici riflessioni, per lo più legate alla morte, al rischio, alla violenza…

E in tutto questo progetto c’è evidentemente un rapporto molto forte con la morte, perché si parla di luoghi che la evocano continuamente. Il rapporto con la morte è esploso in modo fortissimo ad Halle, perché si tratta di una città contrassegnata profondamente dalla storia, seppur molto recente.


EC – Le case sono abbandonate ormai da quasi vent’anni e ora stanno cominciando ad abbattere delle grandi aree della città. In questo caso il rapporto tra “macchina” e figura umana è ancora più spropositato. Ci sono delle grandi gru in azione e Silvia attraversa queste zone con aria un po’ malinconica, quasi da osservatrice. Ad Halle i rapporti sono tutti un po’ diversi, perché l’essere umano non è in relazione con una colonia di tre piani, ma con dei palazzi di venti piani. Si tratta di un’architettura rivolta verso l’alto che rende ancora più piccolo questo fragile esserino.


Alla fine è solo Valence il luogo dove c’è ancora dell’”umano”, si vede anche un mercato…


DN – Sì, perché la banlieue in cui siamo stati è magrebina e quindi c’è proprio l’attitudine a stare fuori, a vivere la strada, la piazza il mercato. Anche Valence ha il suo centro storico con la cattedrale e tutti i suoi negozi. Poi c’è la periferia, molto separata dal resto della città, ma non priva per questo di zone funzionali, di scuole, di parchi. Di base però è come se si cercasse di creare delle piccole città autonome evitando contrasti e frizioni con il centro, una cosa comune un po’ in tutta la Francia. Pensa che Valence è una città grande più o meno come Rimini e nonostante tu possa andare a piedi dal centro alla periferia impiegando circa una mezz’ora di tempo, le due aree sono molto diverse. È come se tu andassi lontano cento chilometri, c’è pochissimo dialogo.


Su questi rapporti tra centro e periferia è poi sempre molto importante comprendere la politica dei mezzi di trasporto e comunicazione…


EC – Ci sono altre città, come Los Angeles, dove il problema dei mezzi di comunicazione è ancora più accentuato. Diventa ancora più scomodo passare da una zona all’altra, da un quartiere all’altro. Sono tutti blocchi chiusi all’interno di una grande distesa. C’è un’impossibilità a comunicare. Pensa a quando ci fu la rivolta nei primi anni Novanta. Molte zone furono chiuse velocemente, perché non si tratta di una città centripeta, come di base sono le città europee, ma è una città dislocata in aree settoriali e quindi parallele, in piccoli tronchi, block, secondo un’idea sostanzialmente di separatezza.


Le scelte urbanistiche rispecchiano, nel bene e nel male, scelte politiche sull’idea di integrazione. Basti pensare al modello americano, al modello europeo e in piccolo alla confusa situazione italiana. Per adesso si assiste, con sfumature diverse, a tre differenti tipi di fallimento. Se proviamo a pensare a una città ideale, è molto difficile trovare modelli possibili…


DN, EC – Tra le grandi città forse quella che è riuscita di più a inventarsi un nuovo modo di convivenza civile è Berlino. Una città con grandi spazi vuoti e con una popolazione giovane, piena di artisti e di movimento. Non credo sia un caso che l’est sia riuscito a inglobare questi tipi di diversità, perché ha una struttura più vuota e più aperta ad accogliere realtà differenti. Ma anche Berlino sta iniziando a scricchiolare…


In Run dunque si susseguono tre città: Rimini, Valence e Halle. Sono tre luoghi che hanno grandi differenze e come mai la scelta invece di metterle insieme? Non si rischia di renderle uniformi?


EC - Sono tre città molto diverse ma anche con tante affinità, le affinità che si riscontrano nei luoghi periferici. L’idea di base nasce dal fatto che, pur nelle grandi differenze, da parte nostra l’intenzione è quella di costruire non tanto una città ideale, ma una “città impossibile”, dove vivi una dimensione architettonica che può mutare appena giri l’angolo.

La nostra ricerca può sembrare un’indagine, una ricognizione, ma di base tutto nasce da un amore per questi luoghi. Perché se io ti devo dire cosa è per me il bello, penso a un luogo del genere, a una scarpa abbandonata, a un edificio un po’ rovinato. Dal progetto Pasolini in poi ci sentiamo a nostro agio con certi panorami, con certi fondali. Preferiamo questo tipo di luoghi rispetto ad ambienti più “contemporanei”, che in teoria rappresenterebbero il bello attuale. Forse perchè inevitabilmente il senso di abbandono e di decadimento che questi luoghi abbandonati hanno, sottende una implicita libertà da leggi e convenzioni, sono spazi del possibile…


E non avete mai pensato invece di mostrare e raccontare “frontalmente” il junkspace?


EC - Sì, all’inizio del progetto X (ics) avevamo fortissimo questo desiderio. Anche le fonti sulle quali lavoravamo rimandavano a questo tipo di discorso, dallo studio di Koohlaas ai libri di Ballard. Poi da una parte ci siamo scontrati con un problema tecnico, nel senso che sono luoghi che non si possono riprendere salvo complicati permessi, e dall’altro è un discorso che abbiamo messo un po’ da parte, forse anche per la difficoltà a trovare un linguaggio adatto. Ma è solo questione di tempo.


Torniamo a Ics_Note per un film, mi sembra evidente che tutto questo lavoro proceda per strati. Nel senso che in linea al Manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément le aree dismesse e abbandonate sono prima di tutto un grande serbatoio di biodiversità, fondamentale dunque per la sopravvivenza di numerose specie e in continuo rapporto con la desertificazione degli spazi urbani. La biodiversità è un valore fondamentale in tempi di omologazione naturale e culturale. Il terzo paesaggio diventa nel vostro lavoro anche lo spazio abitato da figure che potrebbero rappresentare dei residui di umanità, piccole bolle anarchiche di resistenza.

Nel film si vede anche un centro commerciale, una struttura che segue regole esattamente opposte. I luoghi che Koohlaas chiamerebbe Junkspace (come i mega centri commerciali). In un certo senso mi sembra che voi usiate il Manifesto del terzo paesaggio da antidoto al junkspace e viceversa. Nei due video il junkspace appare di sfuggita, ma anche se non si vede direttamente, se non per brevi accenni, è qualcosa di cui si sente forte la pressione. Il vostro occhio si insinua soprattutto in luoghi marginali e i “residui” di umanità sono ridotti al minimo, vediamo in fin dei conti solo quattro o cinque figure. Sono tutti casi nei quali si avverte un germe di ribellione e non c’è solo una fuga dalla città, una sorta di resistenza, ma si accenna a delle forme di “esistenza”. La cosa che mi colpisce è che queste forme di ribellione sono sostanzialmente “estetiche”, cioè si cerca di dare una forma al proprio corpo e allo spazio intorno, ma non esiste nessun tipo di socialità, se non nella relazione di coppia o nella relazione di una banda, di un piccolo gruppo musicale…


DN – Proprio su questo argomento ci stiamo interrogando a proposito di Ics. Terzo movimento. In quel caso vorremmo toccare il tema della violenza. Vogliamo continuare a creare delle architetture fisiche o di relazione per immaginare altri mondi possibili. Ci stiamo domandando che valenza politica possa avere il progetto Ics anche rispetto a questa ondata di violenza. Pensa solo a quello che è accaduto a Verona o agli atroci fatti di cronaca che vengono fuori ogni giorno. In fin dei conti i ragazzi che raccontiamo noi sono in una condizione più astratta e desolata, vivono di più la solitudine. Poi ci siamo anche chiesti da quanti anni un nostro lavoro non andava a Verona e ci siamo accorti che saranno almeno sei o sette anni. C’è evidentemente paura anche per un’estetica, che ha in sé una forte carica politica al suo interno. A Verona non vai più perché la tua estetica non è riconosciuta, è del tutto rifiutata. A partire da questo non vogliamo nemmeno dunque cadere in facili istanze politiche, col rischio di essere banali e patetici. Ci stiamo mettendo in crisi e ancora non sappiamo esattamente dove tutto questo ci porterà.

Pensando ad Halle, la cosa con cui ci confronteremo in questa zona dell’est, è l’esplosione raccapricciante di neonazismo, con fatti davvero molto violenti. È un argomento che vogliamo affrontare e che avevamo iniziato a trattare in Piccoli episodi di fascismo quotidiano e in Ics. Primo movimento. Forse per adesso solo Matteo Garrone è riuscito a rappresentare questo tipo di violenza, in quel caso molto legato a una criminalità organizzata. E forse solo Ballard ha intuito con grande lucidità come un certo tipo di violenza nasca dall’uso sconsiderato delle merci e da certe forme sportive. È un tema molto delicato e molto difficile da trattare…


EC – Noi due, come gruppo, crediamo fortemente nella possibilità di un cambiamento, chiamala “rivoluzione”, chiamala forte necessità di essere “contro”. Per adesso, malgrado i tempi, questo germe ancora resiste, ma in futuro chissà… Il film rispecchia tutto questo, ma anche una sorta di nostalgia, di impossibilità. In Ics_Note per un film ci sono alcune scene dove si parla di rivoluzione, ma tutto rimane sempre sospeso, bloccato, come se anche i germi migliori tendessero a scemare, a narcotizzarsi. Tutto si “anestetizza” come ha scritto giustamente Goffredo Fofi in uno degli ultimi numeri della rivista «Lo straniero»…



di Rodolfo Sacchettini
 

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