Nel loro caso di giovane compagnia fiorentina, Sotterraneo non ha ormai più la valenza di emergente o sconosciuto, ma più si avvicina alla parola “profondo”. Hanno poco più di vent’anni e non raggiungono i venticinque, ma hanno collezionato applausi con il fortunato 11/10 in apnea, segnalazione speciale Premio Scenario 2005, e in seguito con Tilt con la regia della canadese Jillian Keiley (che li ha messi in riga). Due anni fa erano fra il pubblico di Contemporanea. Oggi sono fra i nomi dell’Alveare Off, con Post-it
Il Post It presentato a Contemporanea avrà ben poco della produzione che, in prima nazionale, ha debuttato nella stagione appena conclusa alla Limonaia.
"Soltanto il titolo e pochi altri elementi hanno a che vedere con la precedente esperienza" – spiega Claudio Cirri – "questo è un secondo studio a tutti gli effetti. Ci volevamo mettere in gioco e non riprodurre frammenti del lavoro passato. Appena abbiamo visto il luogo che ci era stato assegnato, anche se avremmo voluto la sala con i ganci al soffitto, ci siamo piacevolmente fatti suggestionare dallo spazio. La fontanella con l’acqua che scorre, i tombini e la finestra sono tutti oggetti scenici che si sono infilati nella nuova site specific. Il tutto resta però basato sull’idea di fine, di quello che chiamiamo “l’azione interrotta” che ha in sé il movimento e la staticità”.
Ma cos’è che spinge cinque ragazzi a buttarsi anima e “core”, a capofitto nella tela e ragnatela del sistema teatro?
Quello che all’inizio ci ha spinto ad intraprendere questa strada è stata la volontà di cercare un modo nuovo, interessante ed originale, di comunicare. Molto di quello che teatralmente ci ruotava attorno e che vedevamo sulla scena non ci soddisfaceva completamente. L’inizio però è stato casuale e molto ingenuo, assolutamente non programmatico e non programmato. Ci siamo detti: facciamo una compagnia e vediamo cosa succede. L’entrata in scena (suggestiva affermazione perché è l’unico dei cinque che non ha mai calcato il palco, ndr) del dramaturg Villa ha cambiato e dato una sterzata al gruppo ed al corso delle cose. La segnalazione al Premio Scenario ci ha motivato, stimolato e ci ha fatto capire che stavamo facendo qualcosa di importante non soltanto per noi. Poi sono arrivate altre conferme e contatti continui in questi due anni in un continuo divenire e crescere. Siamo anche stati fortunati e supportati in primis dal Teatro della Limonaia che ci ha fornito gli spazi per provare. Ma la fortuna ce la siamo cercata con la professionalità e con il duro e costante lavoro sul campo. Probabilmente la parte più dura arriva adesso, dopo aver costruito un bel background di relazioni, è il restare sulla cresta, il non deludere le aspettative, che se da un lato è altamente stimolante, dall’altro è deleterio. In sottofondo c’è sempre una sottile tensione che ci dà adrenalina e responsabilità.
Ma in che direzione vira il vostro lavoro? Quali pieghe sta prendendo, quali strade?
“Sicuramente quello che ci ha caratterizzato fin ora è stata la ricerca di coniugare una via nuova con un’estetica condivisa. E’ difficile dire che un nostro spettacolo è simile all’altro. Quello sul quale lavoriamo molto e che ci preme è l’ironia, che per noi è un tema vitale e fondamentale e fa da accompagnamento a qualsiasi nostra produzione e mi sento di dire che non mancherà nemmeno in futuro. Ci sembra che in giro ci sia molto, troppo, prendersi sul serio, nel teatro e altrove, una frenesia di voler dire cose importanti con un linguaggio importante. A noi invece sembra che con una certa leggerezza e sarcasmo si possa arrivare ad un livello più profondo, raggiungere substrati più intimi”.
Qual è il vostro rapporto con il pubblico. E’ essenziale che ci sia qualcuno a guardarvi o è assolutamente superfluo? In definitiva può esistere teatro senza spettatori o sono aspetti legati a doppio filo?
Il fare teatro anche senza pubblico, alla Carmelo Bene per intenderci, è un aspetto che non ci interessa, noi lavoriamo per il pubblico, in un filo rosso di comunicazione che cercheremo sempre di avere. All’inizio con disincanto, adesso con più consapevolezza e qualche certezza in più. Proprio con Post It siamo riusciti a coniugare ricerca ed estetica. Il pubblico è fondamentale, quando creiamo improvvisando lo facciamo sempre davanti ad una telecamera che è l’occhio del pubblico. Lo spettatore non deve rimanere distante, non ci deve essere filtro, siamo contrari all’ermetismo inavvicinabile e ai concetti inafferrabili.
Il collettivo Teatro Sotterraneo è nato dall’incontro-incrocio tra Claudio Cirri e Matteo Ceccarelli, usciti dalla scuola sestese del Laboratorio Nove, entrambi con esperienze, ed alterne fortune, con la regista Rosaria Bux, il primo con un lavoro su Dino Campana, il secondo su Kurt Cobain. Tirati su da Barbara Nativi (Noccioline di Fausto Paravidino, Il pittore di Madonne di Marc Michel Bouchard, con il compianto angelo Gabriele Venturi) a pane e Intercity, passando per Connection. A loro si sono presto affiancati Sara Bonaventura e Iacopo Braca, imbeccati e spinti dai corsi teatrali scolastici diretti da Stefano Massini prima di approdare ai Chille de la Balanza di Claudio Ascoli a San Salvi. Ha unito, fortificato e cementato il gruppo Daniele Villa. Non attore, non performer, ma dramaturg. Un collante esterno che ha portato sangue e linfa, una visione altra aggiunta a potenzialità già alte evidenziate fin dai primi lavori. Gruppo, collettivo a tutti gli effetti, si considerano “performer”; infatti Uno, il corpo del condannato è recitato in assolo da tutti e quattro gli elementi in azione a rotazione. Tutto è condiviso, le scelte devono essere prese all’unanimità, la salvaguardia dell’insieme viene sempre prima del singolo. Paradossalmente la storia dei “fab four più uno” non poteva che cominciare con un Aspettando Godot, poi mai andato in scena, per presupposti ancora legati ad un’acerba consapevolezza artistica nei propri mezzi, ad un’idea di teatro lontana dall’attuale visione della giovane compagnia, maturata a partire da 11/10 in apnea.
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