INTERVISTE > Raffaella Giordano e l'incomunicabile
Raffaella Giordano porta in dono al pubblico di Contemporanea la sua ultima creazione Cuocere il mondo. Un lavoro coraggioso e commovente che parte dall’esistenza corporea e dalla sua pregnanza; un percorso fatto di silenzi e di vuoti per raccontare il Figlio dell’uomo, il tradimento, la comunione. In una breve ma intensa intervista racconta il suo lavoro, ricordando le responsabilità creative che investono un artista.
In questi giorni hai partecipato in veste di spettatrice agli Alveari Off. Cosa pensi delle nuove generazioni, se così le vogliamo chiamare, qui rappresentate?
Premetto che in queste sere sono stata una spettatrice assolutamente sui generis, innanzitutto sono completamente calata nel mio lavoro, poi sono una spettatrice influenzata conoscendo diversi artisti e il loro lavoro. Inoltre per me è difficile accettare queste etichette storicistiche, generazionali perché comunque mi sento operante, attiva in questo tempo presente. Ciò detto, mi colpisce, e imputo la responsabilità a questo preciso momento storico, l’impossibilità di portare un gesto, parole, atti che siano costruttivi, l’incapacità di sollevare una valenza. In generale sento molto vuoto: è difficile trovare cosa dire e come dirlo. La parola originale la tollero male, come stile, tendenza… gli autori pensano di non essere influenzati, ma il plasticume, lo sfaldamento tocca tutti, lo si voglia o no, a discapito della scoperta dentro di noi attraverso il corpo. Oggi si spinge tutti a liberare la propria voce e molto velocemente si arriva al palcoscenico, cosa che provoca molto svilimento rispetto a una poetica… trovare se stessi richiede tempo, io stessa ho vestito per anni i vestiti di altri e solo nella totale perdita di sé, nel corpo, sono riuscita a trovare la forza comunicativa e relazionale con l’altro-spettatore.
Attraversando la tua poetica affiorano elementi quali la scena come alterità, luogo dell’invisibile, del non-mostrato, dell’incomunicabile…
Incomunicabile che però tenta disperatamente di stabilire una relazione, perché ci incarniamo ci materializziamo in questo mondo, facciamo da ponte di comunicazione, un ponte importante anche con ciò che non c’è. E siamo attraversati e partecipiamo di tutto ciò che non si vede e che anche non si può comunicare in modo così lineare, perché gli ordini dell’esistente e del vitale sono tanti, e noi siamo una sorta di centralità intrecciata, piena di rimandi e di possibilità in questo senso. Certo costruire convocando anche ciò che non si vede, potendoci credere, potendo sostenere questo fatto non è così facile quando in linea di massima la società si organizza intorno ad altri valori. Infatti in questo senso anche la parola politica non è estranea al n ostro fare arte: io non ho mai fatto politica, - se non una politica quantica, come mi piace chiamarla - ma ognuno di noi in questo mestiere, per usare una brutta espressione, si addentra in mondi che poi porta su un luogo, ci sono delle assemblee, la gente vi si concentra attorno e ognuno vi posa una parola, un gesto. Che cosa implica questo, cosa poso lì, cosa promuovo…in fondo la poetica comincia così.
In questa invisibilità dell’oggetto performativo la scena è anche un luogo di sguardi e di relazioni rispetto ad un pubblico. Qual è il tuo rapporto con lo spettatore?
Il mio rapporto è cambiato nel tempo, ho imparato a riconoscerlo di più, a com-prenderlo proprio nel senso di prenderlo insieme. Prima era l’ultima delle mie preoccupazioni, non per questo non lo consideravo importante, ma ovviamente non era il mio referente principe: consideravo già complicato tentare di ascoltare e di organizzare le urgenze, ché quella problematica non riuscivo proprio a conglobarla. Poi chiaramente è entrata naturalmente perché siamo tutti esseri profondamente comunicanti ed esistiamo in virtù di ciò, in funzione di ciò e attraverso questo fatto, non c’è chi non voglia comunicare, se è sana la parola nei due sensi. E’ sempre stata una sorta di bussola interiore difficile da ascoltare perché la questione consiste nell’altro da te che sempre ti chiede di essere, di dire ciò che lui vorrebbe sentirsi dire, riconoscere. E allora questo diventa un dibattito profondo: fino a che punto dialogando con queste parti e offrendo agli occhi degli altri qualcosa che mi riguarda profondamente sono tutelata, perché non voglio essere violentata…come non tradire e allo stesso tempo accettare un tradimento. La misura ovviamente diventa specifica in ogni autore: è una cosa grossa, forte importante su cui potremmo essere tutti un po’ più coraggiosi.
Hai incontrato grandi maestre, e come tali le hai riconosciute, lungo il tuo percorso di crescita e ricerca artistica – sto parlando ovviamente di Carlson e Bausch: ti senti oggi, in qualche modo, “maestra” per le nuove generazioni?
Mi rendo conto che è passato un po’ di tempo da quando ho iniziato a lavorare e che in qualche modo ho accumulato dell’esperienza che può tornare molto utile a chi ne ha di meno, ma come non parlare solo in termini di tempo… sicuramente chiunque di noi passa un’esperienza o aiuta a trasmettere l’esperienza. Sono pudica sotto questo aspetto… mi rendo conto che posso essere per alcuni non tanto un punto di riferimento, un coagulo piuttosto che ha vissuto e abitato una serie di questioni…un centro smistamento insomma… Maestro è una parola che forse appartiene più al passato, oggi è difficile mi sembra usare questo termine che comunque ha un suo valore oggi. Riconosco Carolin come una maestra, e con lei anche tutti quelli che non sono stati direttamente maestri con me ma che mi hanno aperto delle porte, magari solo con un dettaglio, una parola, una fotografia.
Hai parlato della danza come della “forma che più mi ha commosso nella vita”. In tutte le sue forme?
Effettivamente dentro la parola “danza” ci innesto subito la parola individuo, persona, e riconosco che questa espressione ha saputo sollevare in me delle emozioni profonde in quanto significava, per me, vedere l’individuo attraverso quella lingua che peraltro ci appartiene, benché qualcuno ne faccia uno specifico uso e portandola alle sue estreme conseguenze. La lingua mi interessa di meno, nel mio cammino il linguaggio è stato torturato in funzione di dove l’individuo attraversa queste lingue, di come sottraendo, addizionando, nascondendo, coprendo, mascherando, rimascherando si sollevasse un potere umano.
La tua ultima creazione Cuocere il mondo prende forma da una suggestione vinciana, L’ultima cena, che viene alla fine dimenticata, negata. Ci puoi raccontare le tappe di questo lavoro?
Non sento di negare niente, non la vedo così. Forse nei segni dello spazio, così di primo impatto, ma non era mio interesse e desiderio restituire iconograficamente questa situazione: si poteva certo fare la scelta di contestualizzare intorno al tavolo, di giocarci intorno ma così non è stato. Poi non posso neanche dire che mi sono ispirata, in realtà ho toccato alcune questioni mosse da quella vicenda, e lì si giocano una quantità di cose a tantissimi ordini, senza toccare questioni religiose: in particolare prevale la figura centrale nella nostra religione che è il Figlio dell’uomo, non solo Figlio di Dio, una figura centrale, soprattutto come uomo che ha compiuto la sua vita credendo. In fondo, ognuno di noi è un Gesù, ognuno fa un cammino, solleva a sé valori e poi si rimette a tutt’altro da sé. Credo non credo, dubito, non ho fiducia, ma Lui chiede di credere anche quando i miracoli non ci sono più; non c’è niente ma ci sei tu di fronte a te stesso e l’altro ti rimette in fronte a te stesso. Ho fatto un lavoro vicinissimo a tutto il mio lavoro sul corpo, quello più semplice e più difficile che ho inseguito tutta la vita, e mi sembrava esattamente che la questione si stava giocando sul corpo.
Il corpo è depositario di memorie e strumento d’espressione. Come si conciliano queste due possibilità?
Il corpo mi sembra essere un punto di trasmissione in tutti i sensi, latore di informazioni che sono figlie di tutti i figli, di tutte le informazioni della comunità e di quelle del pensiero. Informatore e informante, è lui che costruisce il mondo. Da dove veniamo, che rapporto abbiamo col tempo, con lo spazio che convive dentro il nostro abitacolo incarnato attraversato anche dalla non-materia. Da un lato è anche memoria che partecipa di una vastissima comunità perchè dalla terra veniamo tutti, e alla terra torniamo tutti, e il cielo è per tutti… dove comincia e dove inizia il cielo? La potenza del corpo consiste nel suo rapporto col presente, nel suo vivere il presente…possiamo non esserne consapevoli o meno a seconda di quanto facciamo borbottare la mente, però il corpo è dentro questa condizione, è in presenza, rende presenti le questioni.
Lavorare con altre persone e farle entrare in questo lavoro sul corpo come è stato?
Avvalendomi della fiducia e della fede che ci riguarda tutti, non inventando niente ma casomai incontrando ciò che esiste già; allora questo lavoro “semplice” sul corpo ci fa rimettere alla terra umilmente…a un certo punto ho rintracciato anche la Resurrezione, il momento in cui posso accendere quel presente anche nello smarrimento di non poter nominare. Questo braccio lo tendo là, non so perché, mi si accende la luce e poi allora si scorge l’ordine di misura e le potenzialità che stanno nello spazio del cuore prima di tutto. L’altro ti può risanare un pezzo di corpo, di fronte all’altro prendo coscienza della mia unicità quindi della mia diversità. E allora tradisco? Sì, tradisco, però non ti nego. Il lavoro più grosso è stato svestirsi, utilizzare la differenza come conflitto senza essere in conflitto, senza rispondere col conflitto perché non posso fare finta di essere in pace con me stessa…sono innamorata di questo lavoro anche se è faticoso.
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