Contemporanea e Prato, partiamo dal rapporto del festival con la città.
Questa domanda merita una risposta approfondita. Ho sempre sostenuto che il festival, giunto quest'anno alla tredicesima edizione, non si collochi semplicemente nel territorio ma che sia il territorio stesso a "emanarlo" e suggerirlo. Prato ha una storia complessa che l'ha portata ad essere una terra di passaggio. Sono 193 oggi le etnie presenti, oltre alla più grande comunità cinese d'Italia. In questo risiede una vocazione storica e un potenziale non indifferenti.
L'identità culturale odierna si delinea nel dopoguerra quando, da una serie d'impulsi, nascono scuole di musica, corali e spazi teatrali differenti iniziano a dialogare fra loro: il Metastasio, il Fabbricone, il Fabbrichino, il Politeama, il Magnolfi. Alcuni dei maggiori esponenti del teatro del 900 sono passati da Prato: Ronconi, Streheler, Castri, Brook. Ciò ha contribuito a creare una sensibilità artistica sul territorio e una consapevolezza della trasversalità dei linguaggi. Il sottotitolo del festival è "Le arti della scena”, sottolineiamo la diversità dei linguaggi e ci diamo la sfida di creare un sistema integrato delle realtà culturali. Gli eventi si svolgeranno in vari spazzi dislocati. Ad esempio il Centro Culturale Pecci ospiterà le performance di vari artisti italiani della danza, mentre il Forum dell'arte contemporanea avrà la sua base al Metastasio, nell'ottica del rimescolamento e dell'osmosi.
In base a quale criteri sono stati scelti gli artisti di Contemporanea 15?
Contemporanea non ha mai voluto darsi un tema. La scelta degli artisti e degli spettacoli cerca di rappresentare un'antenna che capti, nel panorama della creazione artistica, le questioni del nostro tempo. Il festival vuole essere un luogo di costruzione, di incontro, di progettualità, aperto in più direzioni. Vuole porre delle domande, creare costanti perdite di equilibrio. Il pubblico non deve essere rassicurato ma entrare nel clima di una ricerca continua. Non dobbiamo fermarci all'evento ma costruire un luogo di progettualità, dobbiamo contribuire a dare forma una comunità di spettatori e cittadini in grado di difendere le proprie conquiste, in grado di sollecitare visioni che vanno condivise e tramandate.
Il festival discute la perdita di senso del teatro. Cosa intende?
Su questo tema ci stiamo interrogando da tempo. Per molti aspetti noi operatori dello spettacolo non abbiamo quasi più ragione d'essere. Pur svolgendo una funzione, manca il dialogo con le comunità, da qui la perdita di senso e di ruoli. Il nostro compito è quello di ricreare le sensibilità necessarie andando ad agire là dove avviene l'incontro, fra rappresentazione e fruizione, fra artista e pubblico. Inoltre, in Italia, la totale mancanza di capacità critica crea spesso confusione nel delineare il confine tra cultura e intrattenimento. Dobbiamo superare la logica degli eventi fini a se stessi.
Quale linea di lavoro è sottesa al programma nelle sue ospitalità internazionali?
Io credo che chi vedrà il festival potrà farsi un'idea concreta e reale della trasversalità dei linguaggi che contraddistingue la scena contemporanea. Come direttore, nella realizzazione di un programma mi pongo anche una funzione pedagogica, l'obiettivo è far conoscere alle nuove generazioni proposte con una certa portata storica. Penso per esempio al lavoro di Tino Sehgal, (Untitled) (2000).
Dopo la grande concentrazione di visioni del festival, cosa resta durante l'anno?
Esiste un forte legame del festival con le realtà culturali e che si sostanza in incontri che durano tutto l'anno. Ho riscontrato inoltre che Contemporane genera delle sollecitazioni, accende delle lampadine, rilascia stimoli nella memoria e nel pensiero.
Lei definisce lo spettatore come un committente.
Abbiamo un pubblico che va dai 17 ai 45 anni, non dico che gli spettatori debbano comporre da soli la programmazione ma certamente sono pronti a essere sollecitato e coinvolto. Quindi si debbono creare i presupposti per un vero e proprio lavoro parallelo tra l'artista, gli intellettuali e la comunità. Per far ciò è necessario ricostruire i luoghi dove questo avviene, dove stare insieme e produrre pensieri. Le persone nel DNA hanno tanti bisogni che la nostra cultura dei media ha narcotizzato e frammentato. Credo che si tratti di ricominciare da capo un vero e proprio processo culturale.
Alla Munchenbach - Laboratorio "per uno spettatori critico"