Buonasera, «Hallo». Così inizia e si conclude la performance di apertura del festival, un flusso continuo di azioni dal ritmo accelerato, come quello delle pellicole dei film muti. In scena Martin Zimmermann è tutt’uno con la scenografia scura e astratta, animata da un figurante che lo assiste. La scena presenta strutture effimere in legno di forma geometrica e, al centro, una cornice mobile, perno dell’azione. A scandire le dinamiche della narrazione è il suono di un pianoforte accompagnato dai rumori creati dall’attore, come lo stridore delle sue scarpe che strisciano sul pavimento e i cigolii della scenografia. Con una recitazione che rompe e ricostruisce di continuo la quarta parete, talvolta Zimmermann interrompe il filo drammaturgico interagendo col pubblico ed esibendosi in trovate del circo più classico. Passa da gag comiche a trucchi illusionistici, scivolando nella malinconica poetica dei clown. Gli oggetti che lo accompagnano con il procedere della storia sembrano spinti a lui da una forza invisibile (tra questi la bombetta di chapliniana memoria). Il corpo plastico di Zimmermann disegna il racconto, privo di parole, offrendo una sua interpretazione credibile sulla condizione dell’individuo nella società contemporanea. Partendo da una condizione originaria di disadattamento, l’uomo conquista a fatica un ruolo riconosciuto dalla vetrina sociale, dopo averne distrutto le strutture prestabilite. Dapprima succube del circostante, sul finale sembra quasi averne acquisito il controllo, ma finisce per scomparire dietro la maschera del "normale".
Giulia Bravi - Laboratorio "Per uno spettatore critico"