Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Contemporanea Festival a Prato dal 23 settembre al 2 ottobre 2016.
Abbiamo parlato con Daria Deflorian alla vigilia della sua Intervista possibile con Antonio Tagliarini. Un incontro-performance ideato per il Festival Contemporanea di Prato per dar modo al pubblico di conoscere più a fondo il processo creativo che c’è dietro ai loro spettacoli. Deflorian e Tagliarini sono due tra i più affermati e noti artisti del teatro di ricerca italiano. Vengono da esperienze diverse ma confinanti: lei dal teatro, è attrice e autrice, vincitrice di un Premio Ubu e un Premio Hystro; lui dalla danza contemporanea ed è performer, autore, regista e coreografo. Lavorano insieme dal 2008 dando vita a lavori di cui sono sia autori che interpreti. Le abbiamo chiesto informazioni sulla performance in programma a Contemporanea e sul lavoro in coppia con Antonio Tagliarini.
Come si svolge l’Intervista possibile?
L’Intervista possibile è un formato a metà tra uno spettacolo vero e proprio, un’intervista e una raccolta di informazioni sul nostro lavoro e sul nostro processo creativo inframezzati da cenni di biografia. Volevamo avvicinare il pubblico a quello che c’è dietro, prima, attorno allo spettacolo teatrale, solitamente l’unico momento che l’artista condivide con il pubblico. Contemporanea ci ha chiesto di essere presenti e noi abbiamo proposto l’Intervista possibile, una forma di incontro che non è un vero e proprio spettacolo. È anche un momento di approfondimento che precede il nostro lavoro, con il quale torneremo a Prato durante questa stagione del Teatro Metastasio, Il cielo non è un fondale. Credo sia importante che un festival si apra a qualcosa di diverso come è questo lavoro. Inoltre il nostro teatro, anche nella sua forma compiuta, non è tanto lontano dal concetto di “presentarsi” di fronte a un pubblico: aprirsi, raccontarsi, e, raccontando se stessi, cercare di raccontare il mondo. La scelta del formato rispecchia il nostro modo di scrivere in scena.
Da cosa prende avvio per voi la costruzione di uno spettacolo?
Per quella che noi abbiamo a posteriori definito la Trilogia dell’Invisibile, edita da Titivillus e che racchiude Rewind, Reality e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni siamo partiti da un oggetto di studio, qualcosa che era già una storia, un fatto: nel primo caso lo spettacolo di Pina Bausch, nel secondo il reportage di un giornalista che parlava di Janina Turek, la donna polacca protagonista di Reality che ha descritto attraverso una serie di elenchi tutti i fatti quotidiani della sua vita, nell’ultimo caso l’immagine del romanzo L'esattore dello scrittore greco Petros Markaris. I nostri spettacoli, però, non sono il racconto di questi oggetti di studio, ma una riflessione sui nodi che hanno sollevato e che ci riguardano in prima persona. Nel prossimo lavoro Il cielo non è un fondale, invece, il centro è lievemente spostato. Per la prima volta proviamo a usare noi stessi come se fossimo delle figure. Cerchiamo di guardarci da fuori, senza la presenza di un oggetto esterno da indagare. Il lavoro vuole provare a analizzare in maniera molto soggettiva il continuo dialogo fra interno ed esterno, condizioni di vita e paesaggio urbano.
Lei e Antonio Tagliarini provenite da esperienze teatrali diverse. In che modo i vostri percorsi si incontrano?
Ci siamo venuti incontro ancora prima di conoscerci, fattore che ha facilitato il dialogo: prima di conoscere Antonio avevo già un grande interesse per i danzatori, in particolare per la loro disciplina e per il fatto che qualsiasi loro creazione nasce per forza dal corpo e sul palcoscenico, non a tavolino. Venendo dall’esperienza del teatro di immagine e di scrittura scenica molti dei miei collaboratori sono stati danzatori, anche tre dei miei maestri lo sono. Dall’altro lato Antonio è sempre stato un performer, la sua teatralità e la sua presenza scenica sono sempre state molto simili a quelle di un attore. Questo ci ha permesso di sentirci vicini ancora prima di collaborare. Come in quei cerchi che hanno ognuno una propria autonomia e poi una zona sovrapposta; cerchiamo ogni volta di non lavorare sulla zona sovrapposta ma sulle distanze perché esse generano sempre conflitto, bisogno di trovare un territorio comune, una vivacità. Tra persone simili c’è spesso una forma di appiattimento, di consolazione, invece il nostro rapporto è sempre molto vivo. Continuiamo singolarmente a fare esperienze diverse ma il nostro è un lavoro sempre in bilico, sempre a rischio di fallimento. L’unica concessione che ci prendiamo per non “incollare” le distanze ma per colmarle è darci molto tempo nella preparazione dei lavori.
Spesso la vostra drammaturgia parte dalla scena vuota che, anche quando si riempie, è sempre molto minimalista. Che importanza hanno gli oggetti che utilizzate in scena?
Per ogni spettacolo abbiamo avuto un’esperienza diversa. Accade spesso nell’arte che dietro a delle scelte che diventano parte della propria poetica ci sono delle circostanze pratiche. Di sicuro ci ha contraddistinto sempre una certa leggerezza: non abbiamo un nostro spazio, nè un furgone, né un deposito per le nostre cose e nello stesso tempo manteniamo la volontà di non buttare via i lavori per poterli adattare a spazi più piccoli e più grandi, i piccoli teatri e gli spazi, i centri sociali. La leggerezza, che intendo anche in termini filosofici, come insegna Calvino nelle sue Lezioni Americane, ha favorito la scelta di non affezionarsi a percorsi complicati e a provare a rinunciare, a capire di che cosa si può fare a meno. In tale processo di sottrazione ci sono però degli oggetti che ti rimangono attaccati, e quelli li porti anche in scena.
Il teatro deve rispecchiare il tempo presente?
Il teatro non rispecchia il tempo presente ma è il tempo presente. Non occorre che provi a rifletterlo in termini intenzionali perché significherebbe rincorrere l’attualità, la questione del momento. Il teatro è tempo presente se è vivo, dunque la domanda si sposta sulla vitalità che riesce a trattenere nel momento in cui si apre al pubblico, durante la messa in scena. Se quest’ultima, invece di essere un’inevitabile cesura del tempo che chiude e fissa le prove come un organismo che non respira più, se la messa in scena riesce a far respirare un lavoro, beh… quando respira il teatro è tempo presente, sempre, di qualunque argomento tratti.
Antonia Liberto - Laboratorio "Per uno spettatore critico"