Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Contemporanea Festival a Prato dal 23 settembre al 2 ottobre 2016.
Tindaro Granata è nato a Tindari in Sicilia ed è drammaturgo, attore e regista. I suoi primi lavori colpiscono perché privi di peli sulla lingua, si guardi ad esempio Antropolaroid, in cui vengono raccontate vicende personali legate alla sua famiglia o Invidiatemi come io vi ho invidiato, dove si affronta un tema tabù come la pedofilia. Lo abbiamo incontrato insieme all’attrice Caterina Carpi, sua collaboratrice, in merito all'ultimo lavoro Io Mostro – esperimenti sociali in archivio.
Come è stato concepito il tuo nuovo spettacolo Io Mostro – esperimenti sociali in archivio?
Tindaro Granata: lo spettacolo nasce come una performance, è un esperimento teatrale. La struttura prevede tre parti: le prime due rientrano in un canone teatrale dove Caterina e io recitiamo dei veri e propri personaggi. Nella terza sezione si compie il nostro “esperimento sociale di archivio”: ci stacchiamo dalla teatralità (vale a dire l'interpretazione di un personaggio) e cerchiamo di fare accadere qualcosa nell’immediato presente, di manifestare il “qui ed ora” nella sua concretezza. Un lavoro molto particolare e strano: è la prima volta, infatti, che mi cimento non in uno spettacolo finito, ma in una performance ibrida che si fa studio.
In che cosa Io Mostro rappresenta per te una sfida?
T. G.: beh... desidero che gli spettatori ragionino su un meccanismo. Io mostro è un lavoro molto ambiguo sin dal titolo, infatti il termine mostro non è solo utilizzato nel senso di “Io mostro a voi” ma anche come la personificazione di un mostro. Confesso che mi è piaciuto giocare su questa ambiguità.
In che modo porti gli spettatori a ragionare sul meccanismo di cui parli?
T. G.: a questo proposito possiamo anticipare solamente che nella prima parte dello spettacolo (una sorta di prima stanza) siamo due personaggi: “mostro x” e “mostro y”, interpretati da me e Caterina. Il secondo quadro, invece, si compone come uno scherzo fatto a una maga, tema che trae spunto da un video su YouTube intitolato Scherzo alla cartomante, facilmente rintracciabile sul web. Lo spettatore viene letteralmente portato nella seconda stanza in cui è ricreato lo studio televisivo dell’indovina. Poi il pubblico verrà posto davanti a un quesito e sarà chiamato a decidere se continuare ad assistere allo spettacolo oppure andarsene: decidendo di rimanere accetta di varcare il confine e di diventare anch’egli mostro.
Come nasce lo spettacolo?
T.G.: il punto di partenza è stato il video della cartomante. Invito tutti a guardarlo dato che conta più di 780.000 visualizzazioni. Nel caso specifico il mostro che volevo raccontare era questa persona che, sfruttando la fragilità degli altri, vuole ottenere un tornaconto economico.
Caterina Carpio: il vero esperimento teatrale però si vede nell’ultima stanza, dove cambia totalmente la logica appartenuta ai primi due quadri. Siamo noi artisti che parliamo e ci confrontiamo su cosa significhi per noi “mostro”. Il tentativo è quello di partire da quel “noi” che ogni giorno può scivolare nella mostruosità.
Cosa significa “partire dal noi”?
C. C.: tutti, nel nostro quotidiano, possiamo cadere nella mostruosità. Le persone spesso si trovano sul confine e scelgono di varcarlo andando in quella direzione. Farlo significa perdere una parte di noi. La domanda è: quanto siamo disposti ad accettare tale perdita?
Io mostro diventa anche un mostrare le scelte che l’essere artista comporta?
T. G.: un artista decide se tendere verso la purezza o preferire la “corruzione” facendo scelte di comodo e ottenendo fama e riconoscimento. Tutto ruota intorno alla scelta. La tua coscienza, parte integrante del tuo “io”, diventa la guida del percorso da intraprendere. La domanda che intendo porre è: «Quante volte, ogni giorno, facciamo delle scelte che ci fanno diventare dei mostri?».
Potresti fare degli esempi di cosa intendi per “mostruoso”?
T. G.: ritengo mostruoso, per esempio, quel momento in cui scegli di far sapere al mondo, in special modo sui social, ogni attimo della tua vita. Una mostruosità che si pone su un grado diverso da quella della maga, ma se riflettiamo bene la scelta è alla base di tutto ed è ciò che ci fa varcare il confine.
Possiamo quindi affermare che dalle prime due stanze alla terza avvenga un passaggio non solo relativo allo spettacolo, ma anche alla vostra persona? Liberandovi dalla dimensione del personaggio e mostrandovi in quanto attori?
T.G.: sì, siamo delle persone che con il loro lavoro e il proprio essere tentano di capire in profondità i temi che affrontano. Questa è operazione faticosa e pericolosa collocabile su una linea di confine. Dico pericolosa perché potrebbe essere recepita come provocazione inutile, sterile, banale e perché è certamente rischiosa, ma gli elementi di studio e di sperimentazione sono alla base del progetto. Possiamo definire la performance come una sorta di lezione che vogliamo fare a noi stessi, non agli altri. Lo spettacolo non ha infatti la pretesa di insegnare.
Tenuto conto che Io mostro evidenzia il labile confine fra ciò che è normale, o è considerato tale, e ciò che non lo è, ci viene in mente che quest’anno è uscito il film di Paolo Virzì «La pazza gioia». Nella pellicola si ragiona su tematiche affini al vostro lavoro. In quanto appassionato e con un background cinematografico ti è capitato di vederlo, ti ci sei rapportato?
T. G.: ho visto il film, l'ho trovato stupendo e adorato soprattutto la figura di Valeria Bruni Tedeschi. L’aspetto che più mi ha colpito è come Virzì sia riuscito a tenere i personaggi su un filo, costantemente sul confine: cosa è vero? cosa non è reale? La bellezza di questo lavoro sta nella capacità di mostrarci ciò che è considerato "anormale", dandoci così la possibiltà di salvarci dalla normalità stessa. Il regista non condanna la pazzia, ma anzi le fa assolvere una funzione salvifica. Dobbiamo concederci alla pazzia, facendo in modo che questa assurga a fiamma vitale che accende le nostre interiorità.
a cura di Alessia Ronge - Laboratorio per uno spettatore critico