Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Contemporanea Festival a Prato dal 23 settembre al 2 ottobre 2016.
«Spogliati». La narrazione di Five Easy Pieces, finora delicata e accondiscendente, di punto in bianco cambia direzione, come se i piani narrativi dapprima abilmente tenuti paralleli da Milo Rau si incrociassero per un gelido, efferato attimo. Come se l’orrore di quei bambini rapiti negli anni ’90 da Marc Dutroux, il mostro di Marcinelle che ha ucciso e abusato di sei bambine, per un solo istante si materializzasse con tutto il suo carico di abissale paura. Questo frammento dell’ultimo sforzo teatrale firmato dall’autore e regista svizzero è il momento centrale della pièce: un attore che interpreta un regista, durante un casting chiede a un’attrice di spogliarsi per rappresentare al meglio una delle vere vittime del pedofilo assassino Dutroux. L’attrice in questione è però una bambina, passata da una rigida selezione assieme ad altri suoi coetanei per entrare a far parte di un cast di attori e così raccontare tramite dei brevi video pseudo-documentaristi la storia di quel mostro che ha sconvolto l’opinione pubblica belga vent’anni fa. Già da questa breve descrizione si capisce come l’intento di Milo Rau sia tentare una riflessione più ampia sul teatro e sulla rappresentazione.
Il format di Five Easy Pieces, sebbene sia composto da più linguaggi assemblati assieme e offra svariate chiavi di lettura, si basa su una solidissima struttura narrativa, che poi altro non è che uno spettacolo di bambini, facilmente fruibile per chiunque. Ed è proprio per questa convivenza di profondità e semplice narrazione che rende lo spettacolo così a fuoco, definito in ogni suo limite formale ma al tempo stesso fecondo di domande per lo spettatore.
La prima cosa che salta all’occhio è la storia. C’è un regista che vorrebbe insegnare a un cast di bambini la recitazione tramite la composizione di questo video documentaristico, frapponendo alle riprese domande sull'essere attori e sui loro interessi personali. Dutroux in realtà non lo vedremo mai, sentiremo solo parlare di lui, ascoltando suo padre e i genitori delle vittime, una cornice di angoscia e orrore che via via si costruisce attorno al mostro; nel frattempo vengono proiettati anche dei video originali che rappresentano scene da televisione d’inchiesta o da ricostruzione drammatica e che i bambini mimano dal vivo sdrammatizzandole in diretta. C’è poi un secondo piano, o strato, legato al dialogo multimediale. Il teatro e il cinema, il teatro e la TV, il teatro e la rappresentazione della realtà in un mondo che la realtà la può riprendere in tutti i suoi colori e suoni e trasportare in tasca o avere sempre a disposizione in salotto, ma per Milo Rau questa finzione è paradossalmente più finta del teatro, perché l'essere effimero di questo è quanto di più vicino ci sia alla caducità della vita. Non è caso se non sono stati i video o i dialoghi a far scattare la paura negli spettatori, ma quel terribile «Spogliati» che era già carico di storia e immagini, ma che adesso (pur attraverso diversi filtri) sta accadendo davvero, davanti ai nostri occhi, a pochi metri da noi. Ed eccoci al terzo strato, la funzione politica e civile del teatro, arte che si interroga sul proprio linguaggio mantenendo un rapporto privilegiato col pubblico. Chi guarda può intuire tutti questi elementi finora elencati anche senza necessariamente razionalizzarli, perché Rau te li sussurra all’orecchio, delle volte con più insistenza, altre con sagace ironia ma sempre con la necessità che l’interlocutore capisca tutto.
Ogni dettaglio dello spettacolo, e sono tanti, è stato selezionato per essere funzionale al racconto, non c’è un orpello di troppo né una parola fuori posto, nessuna riflessione criptica o oggetti dal complesso contenuto simbolico-esoterico: azzardando un paragone potremmo dire che Rau costruisce Five Easy Pieces come Kurt Vonnegut scriveva i suoi romanzi, togliendo tutto finché non rimane la sostanza nuda, scevra da ogni sovrastruttura intellettuale.
Un elemento molto evidente di questo discorso è l’uso della musica, ridotta al minimo, due canzoni cantante da una bambina ad aprire e a chiudere lo spettacolo. Imagine di John Lennon all’inizio, che apre al titolo dello spettacolo proiettato sullo schermo, quasi come in un film, ma interrotta dal regista prima che ci si possa emozionare, un adulto disilluso al quale le parole del musicista inglese non dicono più molto. A chiudere Stay della popstar Rihanna, l’incapacità di far durare una relazione d’amore, un chiusa superficialmente ambigua ma maledettamente inquadrata in uno spettacolo che non vuole indagare sui colpevoli ma sulle conseguenze del dolore.
Che ci sia anche una critica da parte del regista svizzero contro la tv e il suo ruolo durante la cronaca di questa immane tragedia? Forse Rau vuole anche puntare il dito su un certo modo di raccontare l’orrore che ne replica tutti i particolari più raccapriccianti senza assolvere alla sua funzione di cronaca o rielaborazione. Una chiave di lettura ulteriore ce lo può dare un’analisi della scenografia. Nei primi istanti di Five Easy Pieces lo spazio scenico è quasi dismesso, quello che vediamo è un teatro spoglio di ogni orpello, tranne per lo schermo enorme posto in alto al centro, dove vediamo il faccione di Dedain fare smorfie con un atteggiamento da insegnante colto e severo del Grande Teatro. Progressivamente lo spazio si trasforma in un set televisivo, cala un buio impenetrabile, tagliato dai fari che illuminano con precisione piccole scenografie mobili: la casa del padre di Dutroux, la caserma della polizia, il soggiorno di una coppia, una angosciante cantina con un letto malandato, e quando la camera li inquadra ecco che i loro dettagli prendono sostanza e diventano anche loro narrazione attiva, vengono riprese foto, disegni, e sopratutto l’oscurità incombente, il peso inimmaginabile e invisibile che incombe su tutti i personaggi.
I personaggi, infine. Semplici, caratterizzati con l’accetta ma profondi nel contesto dello spettacolo. Con un piglio severo ma saggio il maestro non appare mai supponente, in pratica Dedain non risulta antipatico neanche quando chiede a quella bambina di spogliarsi, lo vediamo come un padre davanti al difficile compito di impartire una lezione al figlio, consapevole però che quella momentanea lontananza gli servirà per rendere efficace il suo intervento. I bambini sono germogli pieni di potenzialità, chi vuole ballare, chi vuole cantare, suonare, chi vuole fare il poliziotto, il loro approccio al teatro è sia innocente che capace di fornire una prospettiva meno vetusta. I bambini rispondono a Dedain con leggerezza e fiducia, senza la necessità di rielaborare le risposte in base al proprio interlocutore o a una costruzione caratteriale fittizia, insomma, senza fare come gli adulti. Con questo semplice ma potente espediente un dramma anche fortemente emotivo non lascia spazio al riscatto dell’emozione, Rau mette in scena dei bambini troppo buffi per riuscire a rivederci tutto il dramma e tutto l’orrore, sentimenti che restano latenti.
Rau riesce nell’ardua impresa di costruire un’opera coinvolgente ma fortemente riflessiva, coinvolgendo le arti multimediali senza risultare goffo o pretenzioso. Five Easy Pieces è davvero un gioiello della drammaturgia contemporanea, dal quale non se ne esce però con il solito applauso di circostanza e un sorriso sul volto.
Giuseppe Di Lorenzo