Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Contemporanea Festival a Prato dal 23 settembre al 2 ottobre 2016
Si può scomporre un movimento tanto da farlo tendere all’immobilità?
È questa la domanda che La Ronde – Quatuor, ultimo lavoro della coreografa svizzera Yasmine Hugonnet, origina nello spettatore. L’artista fa parte di Arts Mouvementés, compagnia di danza fondata nel 2010 a Losanna e da tempo si dedica ad una ricerca sulla postura, sulla plasticità del movimento e sul suono organico. Dopo tre coreografie nelle quali è in scena da sola (Le Rituel des Fausses Fleurs, Le Récital des Postures, La Traversée des Langues) stavolta con lei ci sono tre danzatori.
Un tappeto bianco si staglia nella scatola nera delineata dalle quinte del Teatro Fabbricone. Prima una danzatrice sola agisce nello spazio, poi se ne aggiungono altri tre, formando un quartetto e dando avvio alla struttura circolare da cui il titolo. Si muovono all’unisono come le figure dei vasi attici e non ripetono mai lo stesso gesto, come avvolti in un flusso continuo. Se dapprima i corpi sono autonomi e staccati, poi si intrecciano a partire dalle mani, poi si aggiungono le braccia e infine le gambe, creando un gesto unico lento fino all’esasperazione. Il silenzio è rotto verso la fine dagli unici suoni presenti, prodotti dagli stessi danzatori schioccando la lingua sul palato, che danno origine a un rumore secco simile a quello delle lancette di un orologio, o di un metronomo, o della pioggia che cade. La neutralità dello spazio circostante impone l’attenzione sui performer, i sensi si fanno più acuti e basta distrarsi un attimo per ritrovare i danzatori in una posizione diversa. Un processo di sottrazione in cui la coreografia è priva di qualsiasi appiglio al di fuori del corpo del danzatore che si fa segno, parte di un insieme unico e organico.
E allora, si può scomporre un movimento tanto da farlo tendere all’immobilità?
L’immagine è quella di un vortice scomposto in tanti brevi fermo immagine. La danza riflette sulle sue possibilità partendo dall’origine: quella che l’artista chiama “girotondo” non è altro che una spirale, figura geometrica ancestrale che si trova in tutte le culture. Una linea che si avvolge su se stessa e che prolunga all’infinito un movimento circolare nato dal punto di origine, la spirale è stata fin dall’antichità un motivo sul quale svolgere movimenti coreografati: danze spiraliformi, spesso collegate a riti, erano praticate già dagli antichi greci.
Non si può rimanere neutrali davanti al puro movimento: ipnotico, questo attrae il nostro sguardo mentre la lentezza abitua alle piccole differenze che altrimenti sarebbero state quasi insignificanti. La forma a spirale tende alla perfezione geometrica della linea continua: non è concessa nessuna aritmia.
Ogni singolo danzatore è occupato in un movimento minimo e impercettibile, che si contrappone alla percezione di insieme che al contrario sembra tendere all’immobilità. La spirale continua come un continuo esercizio di controllo estremo del gesto, dei pesi e delle forze. Muscolo dopo muscolo la tensione si fa evidente: il corpo trema, forzato nella posizione quasi immobile mentre l’energia si propaga dall’interno verso l’esterno e rende partecipi della sua presenza gli altri danzatori e il pubblico.
Quindi, si può scomporre un movimento tanto da farlo tendere all’immobilità?
La Hugonnet adotta un linguaggio chiaro di eccessi e contrasti, in cui in particolare dialogano un movimento unico e lento e la densità di stimoli percettivi che esso dà allo spettatore. Questa è la vera forza di una performance che, richiamando forze ataviche, tocca qualcosa che ciascuno ha dentro di sé. Un’azione scenica che è un rito, al quale il pubblico è chiamato a partecipare dalla sua posizione di spettatore. Infatti anche se si guarda l’azione da una posizione esterna, dall’alto, si ha la sensazione di essere inglobati nel vortice e di essere seduti al suo punto di origine, giusto al centro.
Quello della Hugonnet è dunque uno spettacolo che si pone anche come studio sulla visione, sulla distanza dello sguardo tipica del teatro. Due forze si contrappongono: una centrifuga, quella che partendo dai danzatori propaga la sua energia compressa al di fuori del corpo verso il pubblico, e una centripeta, che attrae chi guarda verso il centro de La Ronde.
Antonia Liberto