Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Contemporanea Festival a Prato dal 23 settembre al 2 ottobre 2016
Parlare di musica è come ballare di architettura
Alla faccia di Frank Zappa ecco un ballerino dal Marrakech ballare di architettura. Non che già ai tempi di Zappa la danza moderna non avesse affrontato schemi architettonici nelle coreografie, ma per il virtuoso chitarrista americano il punto era provare che non era possibile parlare di musica (e quindi fare critica). Il punto invece per Radouan Mriziga e del suo 55 è l’uomo al centro del mondo, strumento vitruviano ma anche un po’ compasso che costruisce tramite la danza e una musica che “taglia” lo spazio forme architettoniche con uno scotch di carta. Geniale l’utilizzo delle musicassette, le quali spargevano nell’aria una ruvida musica noise, dalla quale ogni tanto saltava fuori un reference tone che dava al danzatore un’idea più o meno esatta della zona in cui si trovava nello svolgimento suo progetto architettonico. Mriziga si stende per terra, usa il suo corpo come un compasso e come unità di misura, dopo di che usa lo scotch per unire i punti disegnati con un gessetto e disegna la sua “opera”. Sicuramente intrattiene, la performance di Mriziga, ma permangono parecchi dubbi sulla densità di un’opera che è più un divertissement per l’artista stesso.
Se Demetrio Stratos fosse stato un ballerino
Marco D’Agostin è un performer e ballerino pazzesco, quanta energia sprigiona sul palco! Non mi stupirei se lo avessero caricato prima dello show con una batteria nucleare, ma capire dove volesse andare a parare con Everything is ok è davvero arduo. Va detto in difesa dell’artista veneto che questo progetto è ancora in fase embrionale, ma comunque sia è stato messo in scena, c’era un biglietto da pagare e noi l’abbiamo visto, per cui se ne possono tirare giù alcune provvisorie conclusioni. Dopo una brevissima introduzione in cui D’Agostin propone uno scioglilingua multi-linguistico che assomigliava per foga e capacità realizzativa a Demetrio Stratos, ecco che l'artista traduce questa commistione di citazionismo e virtuosismo in danza. Sembrava un alieno con i suoi movimenti assurdi, loop deliranti e respirazione sempre più in crisi, fraseggi e virtuosismi accostati l’uno a l’altro senza soluzione di continuità. Colmando lo spazio visivo con una quantità di azioni e riferimenti inverosimile, D’Agostin raggiunge il suo obbiettivo, stancarci. Che poi questo discorso valga la pena di essere approfondito è un’altra storia.
Oltre l’estremità c’è la logorrea
Forse la più cocente delle delusioni è stata Edges di Ivana Müller. Contorno, margine, estremità, tutti sinonimi di “edges” e tutti curiosamente sinonimi anche dello spettacolo stesso. E se non fosse l’opera d’arte la cosa interessante ma tutto quello ci che gravita attorno? Ed ecco riproduzioni di tele rinascimentali, scene di guerra con l’enfasi e i colori di un Géricault, addirittura set cinematografici, tutti elementi che noi vediamo comporre dai soli attori, muti, come divisi da una quarta parete che si è fatta vetro spesso, impermeabile alla parola. Bello eh? Potenzialmente infatti è bellissimo, ma la messa in scena consta di due enormi problemi. Il primo è il ritmo. Non che ci sia niente di male a mantenere una cadenza più riflessiva, di certo non voleva essere un musical di Broadway questo Edges, ma di certo assomigliava ad uno di quei riti misterici medievali, o a una lentissima processione di paese con un prete che non fa altro che parlare e parlare e parlare. E da qui ci attacchiamo con nonchalance al secondo problema: i dialoghi. I personaggi fuori campo con i loro sproloqui dovevano fornirci una chiave di lettura che altrimenti la scena muta non poteva risolvere? Verbosi, inutilmente ammiccanti a mille citazionismi (come anche tutte le scene, d’altronde), difficili da seguire quando già la scena non aiutava di per sé. Forse il vero problema di questa pièce è la scelta di giocare un po’ troppo al rialzo. La Müller ha costruito un’opera affascinante ed esteticamente appagante, ma che alla lunga annoia e confonde, senza far sortire nello spettatore alcuna domanda o riflessione, saturando lo spazio di movimenti, colori e parole. Tante parole e poco teatro.
Giuseppe Di Lorenzo