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PER UNO SPETTATORE CRITICO, LABORATORIO DI GIORNALISMO > Dentro e fuori la scena. Conversazione con Claudio Morganti e Rita Frongia



Four Little Packages, progetto ospitato nei sotterranei del Teatro Magnolfi da Contemporanea 16, è un lavoro che mette in atto una sintesi, di pensiero e di pratiche. Quattro conferenze-lettura, momenti di incontro che gravitano attorno a temi chiave e accolgono l’intervento di sguardi esterni con cui dialogare. A proposito di “improvvisazione” con Massimiliano Civica; “territorio” con Piergiorgio Giacchè; “morte” con Enrico Piergiacomi; “spettatore” con Attilio Scarpellini. Tornando, ogni sera, a una lettura del Woyzeck di Büchner. Ci siamo fatti molte domande rispetto a questi sprofondamenti, attraversamenti teatrali a cui abbiamo assistito. Sono domande legate ai nodi centrali dei nostri discorsi: cosa e come guardiamo, come mettiamo in discussione i punti di partenza, d’arrivo, ciò che crediamo d’aver raggiunto nel rapportarci da spettatori alla scena. E ci siamo interrogati sulla natura di una ricerca che – dichiaratamente in Four Little Packages – si fa pratica nel teorizzarsi e viceversa. Improvvisazione, accomodamento, spaesamento, sono solo alcune fra le parole che risuonano. Allora forse il modo più semplice per iniziare a parlare di questi quattro momenti è proprio chiedervi: come siete arrivati a definirne la forma?

Claudio Morganti: Da qualche tempo sostengo che gli attori dovrebbero, in qualche modo, occuparsi di teoria. Certo noi non siamo fisici o filosofi, non dobbiamo confrontarci con centinaia d’anni di filosofia e di scienza. Tutto sommato, i teorici del teatro non sono tantissimi. Chiunque abbia a che fare con il teatro dovrebbe leggere e poi rileggere nel corso del tempo una ventina di libri fondamentali. Io per esempio è la terza o quinta volta che leggo Il teatro e il suo doppio e non ci ho capito ancora un granché… bisognerà che lo riprenda ancora, e ancora. Inoltre non credo di sbagliare più di tanto quando dico che la teoria è pratica e la pratica è teoria. Perché noi attori se vogliamo, se ci proviamo, possiamo anche praticare lasciandoci lo spazio e la giusta distanza per considerare ciò che facciamo mentre lo stiamo facendo. Invece siamo abituati a distinguere – o si prova o si chiacchiera. Provi, dai il massimo e dopo chiedi a qualcun altro: come sono andato? (Ma come, non lo sai come sei andato?).
Ecco, invece io credo ci sia la possibilità di praticare, di attraversare un percorso in prova, con un certo distacco, “citando” leggermente, e pensando mentre si agisce. Se questo è possibile (studiare mentre si pratica), allora dovrebbe essere possibile anche il contrario. Non è una novità: esistono le conferenze-spettacolo. Ricordo che tanti anni fa, Nicola Savarese ne faceva di bellissime ed erano molto più “spettacolo” che “conferenze”. A un certo punto quindi mi sono chiesto: come faccio a capire se questo (praticare mentre si studia) è realizzabile in pubblico? Perché poi, detto e letto tutto, la nostra attività si avvalora soltanto in presenza di qualcuno. Se no, non vale.
Perché in teatro c’è un’altra strana abitudine: si prova in assenza di pubblico, dando il cento per cento, come se il pubblico fosse presente e poi, quando invece il pubblico c’è, recitiamo come se non ci fosse nessuno! Con una specie di quarta parete d’acciaio inossidabile che distacca totalmente l’attività del palcoscenico da quella della platea. E questo dipende molto anche dagli spazi, per esempio i teatri all’italiana, che sembrano concepiti appositamente per impedire il rapporto tra attori e spettatori (in realtà erano spazi pensati per la musica) inadatti come sono ai fondamenti fisici del teatro – il buio e il silenzio. La disposizione ideale resta quella antica: gli attori a terra e il pubblico in gradinata di fronte. Per visuale, acustica e soprattutto per il rapporto attore-spettatore era e rimane la migliore. Comunque, diciamo che studiare è praticare e praticare è studiare. Bisogna sempre tenerlo presente per quanto possibile, perché è il modo per ampliare il proprio territorio di competenze. Teoria e pratica, insieme, e poi osare pericolose sortite in terreno sconosciuto. Altrimenti io non capisco dove stia la dimensione creativa e dunque la vivezza del lavoro di un attore. Se si tratta soltanto di rifare al meglio ciò che si è preparato e che si sa fare allora, insomma, non è molto interessante. Non lo è per un attore ma credo che automaticamente non lo sia neanche per chi vede, perché lo spettatore si rispecchia sempre in tutto ciò che ha di fronte: se un attore si diverte, chi vede si diverte, se un attore si annoia, chi vede si annoia. È quasi una legge di natura.

Improvvisazione, territorio, morte, spettatore: ogni tema è il cardine di un incontro. Come sono stati composti?

C.M.: È abbastanza casuale. La proposta delle conferenze è stata di Edoardo Donatini… Son rimasto a pensarci, a pensare a tutto il materiale scritto nel tempo soprattutto grazie agli incontri che da più di dieci anni faccio con l’LGSAS, il mio gruppo di studio, (preparo sempre una relazione, qualcosa per introdurre una chiacchierata) e ho preso da lì, ho cercato di sintetizzare, individuare quattro temi centrali. Da una parte sono tutti connessi perché pretesti che permettono di parlare del teatro, dall’altra potrebbero anche non c’entrare niente l’uno con l’altro. Le connessioni, le relazioni può anche trovarle chi ascolta. In realtà, poi, si parte da un tema che è elemento di comparazione per poter parlare del lavoro dell’attore. Perché a me quello interessa, farlo e parlarne, e più passa il tempo più mi interessa parlarne (e forse sempre meno farlo). E siccome non si può parlare direttamente e in maniera così esplicita e sfacciata del teatro allora, come fanno i “sufi” con l’idea di Dio, bisogna tenerlo sempre in mente, sempre presente e rapportarlo a tutto ciò che si fa. È l’unico modo. Pretesti quindi: improvvisazione certamente è un argomento più specifico, territorio riguarda quello che una volta si chiamava bagaglio di competenze, morte naturalmente… negli ultimi tempi io mi sono occupato molto del rapporto tra fotografia e teatro, morte viene da lì, e spettatore è qualcosa spero di un po’ più lieve, più scherzoso e riprende quattro tipologie di spettatore dentro le quali ciascuno di noi si può riconoscere (tipologie raccontate ne La grazia non pensa, pubblicato su “Lo Straniero”, ndr).

Durante queste sere ci sono stati riferimenti musicali costanti; oltre al jazz, le tracce che abbiamo ascoltato erano brani di gruppi progressive rock italiani. Una scelta di tipo musicologico o di gusto?

C.M.: Nostalgia pura! Io musicalmente mi sono formato così e ora mi sto “riformando”. È stata la mia infanzia, quando ho cominciato a suonare la batteria suonavo quella roba lì, poi suonavo i Deep Purple, i Led Zeppelin poco perché erano molto difficili. Mettevo da parte le monete da 50 lire per potermi comprare gli LP di tutti i gruppi del rock italiano (“progressive” era una parola che non esisteva), ma tutti, anche quelli che avevano fatto un disco solo – Quella vecchia Locanda, Jumbo, Rovescio della medaglia.

Museo Rosenbach…

C.M.: Anche loro, un solo disco. Nostalgia pura e semplice.

A partire dalla musica il pensiero va all’improvvisazione e alle risonanze possibili con il canovaccio della commedia dell’arte.

C.M.: Il canovaccio è un po’ come uno schema jazz, dove ci sono dei temi da cui tentare quel salto nell’ignoto di cui parlano Steve Lacy e Derek Bailey. Per un musicista è una questione molto più comprensibile, semplice da afferrare. C’è una scrittura chiara che determina un terreno di gioco e dei momenti canonici in cui tu non solo se vuoi puoi, ma devi uscire e provare cose mai fatte. È il problema di chi improvvisa nel jazz: alcuni tendono a ripetersi e questo non si deve fare perché, come diceva un batterista di cui ora mi sfugge il nome, “non c’è niente di più morto dell’improvvisazione di ieri”. Stephen Icks, organista, affermava che un’improvvisazione “non andrebbe riascoltata”. Ma se ci pensi bene questo è un concetto originario – la musica può nascere solo così, senza una scrittura a monte. La musica colta (quella scritta) nel ‘900 si è occupata di improvvisazione e sono venute fuori pratiche e riflessioni che a me hanno permesso di capire meglio anche il jazz. Quando ascolto, quando leggo, per esempio, ciò che dice Cage, io capisco tutta la musica, anche quella fatta con due sole note, come la musica primitiva che nessuno ha mai ascoltato. Ma in tutte le arti, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, ci siamo confrontati con temi “limite”. E mentre i musicisti e i pittori erano già immersi nello studio del concetto di astratto, in teatro ci si è arrivati un po’ dopo, e comunque era un problema perché che cosa vuoi astrarre? Siamo corpi, siamo persone, siamo sempre concreti, però in Russia per esempio ci hanno provato. È un discorso che ha riguardato la danza, i tentativi di fusione linguistica, futuristi, dadaisti, strutturalisti. Un momento storico pazzesco. Purtroppo, se considero la restaurazione cromwelliana di oggi ho come l’impressione che tutto sia passato invano. Bisognerebbe conoscere a fondo chi ci ha preceduto. Poi tu puoi anche continuare a fare ciò che fai, però avrà un sapore diverso sapendo da dove vieni.

Rita Frongia: Probabilmente, se riuscissimo a guardare un canovaccio ignorando i temi e le storie ma rivolgendoci ai ritmi e alle dinamiche ci sarebbe ancora più vicinanza con la musica. La forza di un canovaccio, la possibilità di libertà che dà, è più grande se noi riusciamo a ignorare la storia, la narrazione. È quello che diceva Mejerchol’d, no?: per capire se un testo ha forza drammatica togliamo le parole e proviamo a recitarlo, facciamo la pantomima (che poi chissà cosa facevano veramente, sarebbe bello avere dei documenti dell’epoca). Se la lingua, le parole, sono uno degli apparati, non una soluzione ma una possibilità, possiamo “far finta” di essere anche noi un po’ musicisti.

C. M.: Io mi chiedo: è possibile scrivere per il teatro qualcosa che metta l’attore in condizione di avere un terreno solido da cui partire per tentare il salto? In realtà sì, è possibile, purché si scrivano copioni, che sono canovacci un po’ più dettagliati, non sono “testi”. Il testo, se vuoi poi renderlo pubblico (pubblicabile), lo devi rivedere, definire e renderlo adatto per essere letto (a differenza del copione che deve essere detto). A un attore basta un copione che dia modo a qualcosa di nascere, che lasci degli spazi. È negli spazi, nelle spaccature che un attore può fare una pausa, trovare uno sguardo, cercare una sponda dall’altra parte. Ma questo può accadere solo se non hai ingolfato la pagina di concetti e parole.

R. F.: Diciamo che la parte testuale di un copione è la zona invariabile, la parte visibile, mentre la drammaturgia è la parte invisibile, mobile. È una forzatura certo – perché ci sono delle battute che invece hanno una forza drammatica pazzesca – ma ci serve per parlarne: se potessimo davvero dividere testo e drammaturgia allora potremmo dire che il testo è fisso mentre la drammaturgia è mobile, il primo occupa uno spazio, la seconda si realizza nel tempo. Ed è un continuo rimpallare da una parte all’altra. Quando parliamo di nuova drammaturgia dovremmo parlare di nuovi testi, testi contemporanei, perché la drammaturgia (ce l’ha insegnato Beckett quando ha scritto Atto senza parole II) può fare a meno dei testi. I più bravi drammaturghi sono gli attori competenti, soprattutto quelli italiani che hanno messo e mettono le mani nella drammaturgia.

C. M.: Quella che Leo chiamava “scrittura di scena”.

Sempre rispetto al vostro fare, ci potreste raccontare come avete messo in atto questo rapporto tra testo, drammaturgia e variazione in Mit Lenz, dove in scena c’era anche Antonio Perrone; in che modo in fase di scrittura avete preservato le zone di mobilità di cui stiamo parlando?

C.M.: Il nostro lavoro è anche ripetere, replicare, necessariamente. Dunque in Mit Lenz c’erano queste scene, piccole ricostruzioni di dialoghi scritte da Rita che erano le parti che, in qualche modo, ogni sera cercavamo di rivitalizzare attraverso una presenza nuova. La scrittura era precisa, le battute le stesse, non c’era nessuna variazione da fare se non provare a lavorare su quella zona opaca che esiste tra una ripetizione e l’altra. Non si può rifare esattamente il teatro (su questo siamo tutti d’accordo, non è il cinema). Ma se questo è vero allora vuol dire che una zona di improvvisazione è immanente al recitare; la natura non ti consente l’esatta ripetizione, quindi tu hai a che fare con una zona sottile in cui inevitabilmente devi improvvisare. Allora i casi sono due: o te ne freghi e fai finta che questa zona non ci sia, oppure quello è proprio il luogo in cui andare a lavorare e cioè a creare. E se le parole sono sempre le stesse su cosa lavori? Sul respiro, per esempio, che determina, cambia e ti rinnova le pause, o sugli sguardi, sulla tua tensione. Lì c’è l’improvvisazione, che in teatro non può che essere altamente idiomatica e molto, molto sottile. In musica puoi fare libera improvvisazione, ma in teatro se lo fai diventa happening. Quindi in Mit Lenz c’erano queste parti “classiche”, mentre tutto il resto andava verso possibilità di dilatazione, anche testuale, molto più ampie, con degli appuntamenti precisi.

R. F.: Mi sto ricordando quando c’è stata una svolta drammatica nei dialoghi con Antonio Perrone… Il tentativo era, è sempre, quello di stabilire una relazione personale: Claudio e Antonio in scena che si guardano e si parlano, davvero, e che si riconoscono. Certo, naturalmente c’è un’alterazione: si devono riconoscere nella zona alterata dello spazio scenico. Ricordo che c’era un dialogo molto complesso tra Lenz e il pastore Oberlin, parlava dell’arte, della vita, affrontava concetti importanti – spesso un concetto fa a cazzotti con la relazione e la vitalità della scena, tu stai portando un peso quindi, ancor di più, devi trovare la leggerezza per sostenerlo, far sì che scivoli via, come in una dimensione possibile –; in quel dialogo sentivo delle forzature, degli inciampi. A un certo punto guardo la scena: a sinistra è pieno di bottiglie, vere, che noi abbiamo bevuto e sono rimaste lì (era la “scenografia”). Allora è bastato introdurre una battuta: Antonio-Lenz si ferma e a un certo punto dice: «Pastore Oberlin, voi avete bevuto questa sera». È cambiato improvvisamente il clima e questa battuta ha determinato che, già da prima, il pastore si sentisse nel gioco dell’alterazione alcolica e ha creato per Lenz la possibilità di stare in una relazione concreta. Ecco, per dire quanto anche le parole a volte possono essere determinanti nel principiare l’atto drammatico, il movimento.

Tornando a Four Little Packages e pensando anche allo spazio in cui si sono svolti gli incontri, che accoglie un numero raccolto di spettatori, qual è l’idea di pubblico che c’è alla base di questo lavoro?

C.M.: Il pensiero è sempre quello di un pubblico alto, spettatori che sono anche più intelligenti di te, e questo sia che tu faccia Mit Lenz sia che tu faccia una conferenza… Si dice che c’è poco pubblico. Forse ce n’è troppo. Se togli gli occasionali, i non appassionati, quelli che vanno a teatro ma a cui il teatro non piace, rimaniamo ancora in meno. Non voglio farne un discorso d’élite. Chi fa teatro si rivolge al mondo intero, è un urlo che si vorrebbe fosse ascoltato da tutti, ma meglio se venti alla volta! Poi si arriva dove si può, ma il teatro è per tutti. Ed è anche un modo per poter parlare con le persone. E io sento che, quando cominciano ad essere più di una trentina, perdo il sentimento del potermi rivolgere a ciascuno personalmente. È un problema di distanza fisica (qui torniamo all’assurdo dei teatri all’italiana), ma anche di numero (da un certo punto in poi la percezione cambia, cambia il rapporto con la voce – nella scuole ti insegnano che devi parlare in maniera neutra, deve “arrivare la voce”, allora te la impostano e ti ritrovi a urlare qualunque cosa tu dica. E quando altezza, intensità e timbro sono abnormi, con chi stai parlando? Con chi parli? Con nessuno. Stai recitando, appunto, come se non ci fosse nessuno). Se vuoi recitare parlando a qualcuno, entrare in relazione, bisogna proprio che non ci siano cinquecento persone.

Ed è da questo ragionamento che nasce la scelta del luogo?

C.M: Quello è uno spazio che mi fece vedere Edoardo Donatini l’anno in cui volevo lavorare su Lenz di Büchner. Volevo trovare un luogo diverso dal teatrino del Magnolfi o dal Fabbricone. Lo vidi, prima era un deposito, ci siamo detti: proviamo. E mi sono reso conto che per quanto mi riguarda, per come io sono, lavoro e per le cose che scelgo, quella è una dimensione ideale. Il numero di persone è giusto e tu lì lo spettacolo non ce lo puoi proprio fare, qualunque tentazione ti venga te la devi levare dalla mente, devi necessariamente tentare il teatro in uno spazio così. Quindi a me piace molto, quando lavoro a Prato lo chiedo sempre. Poi è chiaro, è un fatto fisico, se in scena ci sono più di due persone, non ci puoi più stare, Freier Klang (sono in tre in scena) per esempio lì non si potrebbe portare.

La parte finale di queste serate ha sempre coinciso con una lettura del Woyzeck di Büchner, un testo con il quale negli anni ci sono stati diversi momenti di confronto. Ecco, riprendendo il discorso attorno all’improvvisazione ma anche attorno al tempo delle prove, in rapporto a quest’opera per esempio ti sei mai dato la possibilità di affrontare un’“improvvisazione totale”, di provare direttamente con il pubblico?

C. M.: Guarda, è quello che sto facendo in questi giorni. Di solito in teatro l’improvvisazione si adopera soprattutto in prova, anzi, la si adopera solo in prova e quando salta fuori qualcosa di giusto, di vivo si cerca di fissarlo, uccidendolo. Ma le prove migliori, in cui comunque si improvvisa sempre, sono una sorta di leggerissime prove di memoria, che ti sgravano dal peso interpretativo e quindi lasciano molti spazi liberi, mentali e anche fisici, in modo che tu possa scoprire delle cose: una postura, o un tono di voce per esempio. Tanto che a un certo punto, grazie a una leggera frequentazione, tu non hai più bisogno di sottolineare, di marcare, perché hai dentro quel colore, quello sguardo, quel ritmo – è un fatto semplicemente, esclusivamente di ritmo. Con Woyzeck, in queste sere, è un’improvvisazione pura, totale. Quello che leggo lo tratto come fosse un copione. Come dice Steve Lacy, ti porti dietro tutto il tuo bagaglio di conoscenza, la tua tecnica ed è da lì che ti muovi per andare altrove. Sono quattro anni che non leggo Woyzeck. Non solo, sto anche adoperando un testo diverso, senza gli appunti del passato. A volte mi ci ritrovo a volte no, ma va bene così, è un impedimento in più. Comincio a leggere e bisogna che vada a ritrovare un pensiero, non un colore, non un clima, perché è inutile, non ci sono più. C’è un ricordo e non c’è una memoria, perché non c’è mai stata. Se tu leggi senza voler imparare a memoria, ma per trovare, che so, un nuovo silenzio, un momento tuo, ogni volta tu leggi per davvero. Quindi la lettura corrisponde totalmente a quella dimensione d’improvvisazione di cui parlo. Tutto nuovo, tutto diverso. Credo che si senta, anche perché ci sono degli inciampi, dei tempi forse morti, troppo lunghi, ci sono gli errori, lo so, ma quelli è bene che ci siano. Miroslav Tichý, non so se conoscete questo fotografo, questo clochard fotografo, lui diceva: ma che gusto c’è se dentro una fotografia non c’è neanche un errore?

In qualche modo quindi è come se fosse consustanziale al lavoro dell’attore lasciare che una parte di ciò che si è provato da soli o in pubblico, ogni volta, al ritorno in scena venga dimenticata, si dissolva…

C.M.: Sì… ma sai, in teoria, ma solo in teoria, sul palcoscenico è semplice, perché basta che tu rinunci. Rinunci a una tensione, a un tempo, un effetto, rinunci a una volontà. Ed è la ripartenza, la rinascita. L’improvvisazione non è un’attività che produce qualcosa, ma che crea nascite, crea inizi che prima non c’erano e che subito spariscono. E questo si può fare in teatro, da soli è relativamente più facile, quando sei con altri in scena ci vuole un grande affiatamento…  può succedere ma sono veramente casi rarissimi.

Pensando soprattutto al teatro italiano, e forse a quelle figure che tu consideri maestri, in questo rapporto osmotico tra pratica e teoria quali sono le pratiche, i riferimenti teatrali che hai in mente? Come ti ci rapporti?

C.M.: È una domanda talmente complessa che bisogna rispondere in maniera molto semplice, lineare, perché se no diventa difficile. Comincio con Carlo Cecchi. Dunque, la questione fondamentale in scena, secondo me, è quella dell’ascolto e della relazione personale. Tutto il resto sono conseguenze. La relazione tra i personaggi è una conseguenza della relazione personale. All’inizio non si può sapere che colore avrà la relazione tra personaggi, se non quello che sta scritto sulla pagina (il padre, il figlio, ecc.). In genere i registi la immaginano e spingono perché ciò che hanno in mente venga fuori, senza lasciare che arrivi da una necessità vitale di chi sta in scena. Ma la necessità vitale di chi sta in scena sicuramente è diversa da quella intellettuale di chi sta fuori. Bisognerebbe cominciare senza idee. Carlo Cecchi lo diceva sempre: «Io sono un regista che non ha idee», certo è un’iperbole e tutti ridevano ma, come al solito in teatro, le verità più pure passano per essere boutade. Allora quando io affronto questa dimensione (la questione personaggio) è chiaro che il mio riferimento rimane Carlo Cecchi, e il suo modo di lavorare e di stare in scena, con tutto il bello e tutto il brutto. Poi ci sono altre figure: il levarsi timori reverenziali nei confronti dell’autore (tutti i classici chiedono di essere riscritti), i riferimenti al teatro popolare, al teatro comico sono dimensioni che mi vengono incontro a partire da Leo de Berardinis; l’indipendenza di un pensiero e di un agire da Carmelo Bene; e sotto e sopra tutto c’è Antonio Neiwiller, il cui pensiero per me pertiene a una sfera squisitamente umana, con un rispetto e un amore immenso per ciò che lui ha fatto, per la sua poesia di scena, il suo stare in scena, il suo lavorare con gli altri… Sì, questi sono i miei riferimenti. Con Alfonso Santagata ci siamo formati insieme, per molti anni, ma lì era diverso, c’era una condivisione quotidiana di tutto, scoperte, incazzature, litigi. Mentre queste che ho citato sono figure più limpide, più pure. Non ho mai lavorato con loro. Carmelo non l’ho neanche mai conosciuto.

La nostra è una tradizione di attori-autori, creatori che vivono e scrivono la scena. Cosa significa per te stare dentro questa complessità, vedere la scena da dentro ma anche osservarla da fuori?

C. M.: Studiare facendo e fare studiando sono due momenti che non vivono una separazione così netta. Solo un regista puro sta fuori, poi c’è la possibilità di cui parlo, che è un grande privilegio. Si capiscono molte più cose da dentro, dal punto di vista della relazione, del colore, delle dinamiche e soprattutto del ritmo. Mentre altre cose si capiscono meglio da fuori, per esempio la composizione, della tecnica, del tempo, delle entrate e delle uscite. Tutti aspetti che costituiscono il lavoro, perché la composizione è lo spettacolo, ma il teatro tu lo senti da dentro. Ora, anche un regista sente il teatro, lo riconosce; l’errore, il più delle volte, è quello di voler fissare ciò che ha riconosciuto, di occuparsi del momento piuttosto che della condizione che lo ha reso possibile, confondendo la condizione con la situazione. Siamo tutti d’accordo con Peter Brook, ma è rarissimo che un regista provi ad applicare il suo discorso. Gli schemi che precedono le prove non contano; all’atto della verifica, quello del palcoscenico, se non si ha la mente occlusa da pre-pensieri allora sarà possibile cogliere tutto ciò che offre l’osservazione del lavoro degli attori, che sono sempre generosi, sempre propongono, sbagliando anche. Ed è lì che tu costruisci, attimo dopo attimo, la tua “regia”. Poi si tratta di regie che danno filo da torcere ai critici, perché non c’è molto da dire, perché sono regie invisibili. Poi io sono un attore, nasco così, non ho tesi a cui dare forma rispetto a un testo, ho delle fascinazioni, degli innamoramenti, il desiderio di occuparmi di una cosa piuttosto che di un’altra e quando ho il compito del regista il mio unico scopo è far sì che gli attori si divertano, stiano bene e che partecipino tutti a uno stesso gioco, uno stesso progetto creativo. Il problema è di responsabilità: quanto più un attore viene istruito (ma questo ve lo dico perché fa parte della mia esperienza personale e di tanti colleghi) tanto più ha la possibilità di deresponsabilizzarsi, quanto più, invece, arriva al punto di dire parole che sono in realtà sue (o sente come sue), anche se sono state scritte da qualcun’altro, perché le ha vissute durante un proprio atto vitale, allora diventa pienamente responsabile di quel che dice di fronte al mondo.


[intervista realizzata dal laboratorio “Per uno spettatore critico” di Altre Velocità, Contemporanea 2016, Prato. Data di realizzazione: 30 settembre 2016]


di Francesca Bini


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