Quanto più si va a fondo, tanto più è difficile raccontare. Il Titanic è affondato un secolo fa, e Roberto Latini ci porta lì, nell’attimo del crollo, dello scontro con una montagna di ghiaccio trasparente e inamovibile. Siamo nello schianto, dentro, o subito dopo. Il tempo dello spettacolo è un flusso che comprende e segue l’impatto, ma non lo descrive mai. Lo spettacolo è una lotta. Il corpo dell’attore contro la storia; le voci di quel corpo contro un’atmosfera grave; suoni e musiche che annullano continuamente un tempo e uno spazio altrimenti contingenti, didascalici.
Noi vediamo un attore. Vediamo il suo corpo che si muove in un abisso di onde e buio. Tenace, feroce e aggrappato al fondale di un pozzo stretto e luminoso, Roberto Latini è una figura attraversata da più voci, che ora dettano ordini, ora sfuggono e si riparano sotto un braccio dichiarando un’impossibilità a reagire. Un megafono e un telefono amplificano talvolta quelle grida interiori, che sgorgano da punti imprecisi di un contesto, che però si manifestano allo spettatore in forma nitida, messaggeri di più sfumature di uno stesso sentimento dell’abbandono.
Che cosa veda Latini dal centro di quel fondo è difficile capirlo. Nello spazio tra la platea e la scena c’è un leggerissimo tulle nero, che fa da filtro allo sguardo e da limite all’azione. Latini non è in gabbia, è anzi sciolto da ogni catena, e oltre al corpo che costruisce gesti millimetrici o che sconvolge la scena con azioni rovinose, è il corpo-voce che invade lo spazio e trapassa quella cortina semitrasparente.
Attore e spettatore sono vicini, prossimi l’uno all’altro in un luogo che non è una nave, che non è quel Titanic di cui la storia ci ha insegnato le sfortune e le glorie disilluse. Siamo su una zattera, piccola e personale, assi di legno che ci traghettano verso un altrove ancora sconosciuto. Non vorremmo essere lì, ma ci siamo. Allora vorremmo gridare aiuto, ma non possiamo. Vorremmo essere quella voce e liberarci verso l’alto con quella carica emotiva che ci è mostrata. Ma non possiamo. Ciò che vediamo è al contempo dentro e fuori l’attore che abbiamo di fronte. Quel baratro, che Latini porta dentro di sé, è mostrato con spudoratezza, calato dentro la visione di uno sprofondamento, che è contemporaneamente un naufragio e un distacco, un abbandono di qualcosa e un abbandonarsi a qualcuno.
Noosfera Titanic è uno spettacolo teatrale. Il contratto è relazionale. La storia è la lotta. Chi si fronteggia sono un attore, ebbro di una biografia disordinata e vorticosa, e uno spettatore, chiamato a reagire senza mentire a ciò che ha di fronte. Ma la lotta è anche in quel corpo, è nella gola che dà origine al lamento, alla preghiera, alla richiesta di aiuto e all’ammissione di colpa. La lotta si consuma in una questione attoriale profonda, dove lo statuto dell’io è messo in crisi: un io si rivolge a un tu, ed entrambi i soggetti sono parti di mondi. E l’io che abbiamo di fronte questa volta non si nega nulla, e dà forma, nel finale, alla Donna Elvira riscritta in prosa da Molière. Chiede scusa per il proprio amore, si dichiara mutata dalla mattina alla sera. E la trasformazione, da maschile a femminile, da figura a personaggio, da indefinito a nominato, è una proposta, l’ennesima possibilità che l’attore si dà.