SCENE RADIOFONICHE
Raccogliamo le parole di alcuni artisti che hanno risposto sollecitati a riflettere sull’utilizzo creativo della radio. Le righe che seguono partono dall’esperienza concreta e affrontano la relazione tra la scena e il mezzo radiofonico, immaginando le aperture di prospettiva per l’arte del radiodramma. Per Ermanna Montanari, direttrice artistica di Santarcangelo 41, il festival stesso fornirà alcune delle risposte possibili: «La Festa della radio, questa sontuosità che accoglierà quattro opere radiofoniche, o Radio Gun Gun, che incontrerà gli artisti durante il dopofestival all’Odeon. Le risposte sono nella concretezza del fare, la visione è sempre là dove la cosa esiste. Questo ci permette di inseguire, imparare, procedere».
Gianni Farina / Menoventi
La capacità di produrre immagini è l’elemento comune tra radiodramma e teatro che più ci interessa. Il radiodramma può essere considerato come una iconoteca, come una stanza in cui si producono, si ricevono e si consumano immagini. La sua cifra consiste nell’ascolto, quindi le immagini sono senz’altro immagini mentali, ma le scienze cognitive ci insegnano che per la mente umana non esistono sostanziali differenze tra immagini provenienti dall’esterno e immagini interiori. A livello neuronale la differenza non esiste: chi dice quindi che debba subentrare uno scarto nella profondità del pensiero? Se c’è differenza, essa esiste solo nella parte più superficiale del processo cognitivo, la coscienza. Il radiodramma quindi sconfina sempre nel regime scopico abitualmente attribuito alle arti figurative e al teatro, generando immagini vivissime dalle possibilità evocative illimitate. Questo non significa che non esistano sostanziali differenze: per quanto ci riguarda, il lavoro di “traduzione” da Postilla a Il Contratto ha richiesto una totale riscrittura e rimodellamento dell’opera, che ci ha portato a cambiare lo stesso titolo. Quel che allo stesso tempo ci interessa è lo scarto che esiste tra teatro e radiodramma nell’interazione con lo spettatore. Mentre a teatro è sempre possibile costruire un rapporto bidirezionale tra palco e platea, la radio complica la situazione: la relazione tra l’opera e l’ascoltatore diventa monodirezionale. È proprio questa barriera che cerchiamo, con un piccolissimo primo passo, di incrinare con Il Contratto. Il radiodramma lancia una sfida che cogliamo partendo proprio da questo progetto, investigando i limiti e i punti di forza della relazione via etere. Il Contratto tenta di sfruttare le peculiarità della radio agendo su tre livelli di relazione: il live, il registrato e il registrato nel registrato, cercando di ricreare una selva di cornici comunicative in cui perdere il contatto con... l’etere. Sì, questa è la cosa più divertente: il radiodramma in un certo senso non esiste, è una cosa invisibile e intangibile che viaggia nell’aria. Dov’è? Non è solo nella sede di trasmissione o a casa dell’ascoltatore: ci circonda, è ubiquo. Quando diciamo “a casa dello spettatore” in realtà operiamo un’approssimazione poco convincente, altro spunto di riflessione che ci interessa moltissimo. Oggi la fruizione del radiodramma è cambiata; mentre fino a pochi anni fa lo si ascoltava unicamente alla radio, quindi a volte quasi casualmente o quantomeno con modalità e tempi determinati dall’esterno, dal palinsesto, le odierne tecnologie permettono di effettuare una scelta: il radiodramma è sempre più fruito attraverso computer, iPod e mezzi simili, quindi è spesso scaricato da internet, in podcast o peer-to-peer, come un oggetto di scambio tra amici. L’incontro con l’opera quindi cambia: la possiamo cercare, possiamo scegliere esattamente dove e quando ascoltarla. L’influenza di questa scelta e delle condizioni di fruizione dell’opera sono alla base di Postilla; da cui lo sviluppo naturale da spettacolo a radiodramma. Le nuove tecnologie permettono di ascoltare il programma in viaggio, durante lunghi spostamenti; ecco quindi che ritorniamo sulla dislocazione: dov’è lo spettatore? Una bella sfida, che a un primo approccio ci sembrava una limitazione insormontabile: noi parliamo a lui direttamente, ma non sappiamo in quale contesto si trovi mentre le nostre voci lo raggiungono. Dopo un primo stallo, abbiamo capito una cosa semplicissima, che ci ha permesso di proseguire con il lavoro. Anche l’ascoltatore non sa dove siamo noi, e potremmo essere più vicini di quello che immagina...
Chiara Guidi / Socìetas Raffaello Sanzio
Ciò che avvicina il mio lavoro alla radiofonia è un comune desiderio di riuscire a vedere attraverso il suono: attraverso il suono realizzare lo sguardo, la visione, cioè il teatro. Ci sono tuttavia delle differenze tra teatro e radiodramma che vanno rispettate e sulle quali non va fatta confusione. Il radiodramma porta con sé la forza e la potenza delle parole: scrivere un testo teatrale pensato per la lettura alla radio è ancora più complesso che pensarlo per la scena. Alla radio il significato è preponderante come all’interno di una poesia, dove la parola e il suono sono allineati. Mentre il teatro è un luogo che si sceglie di varcare, il radiodramma non ha un pubblico pagante. Questo obbliga a concepire radiodrammi specifici per fasce d’orario e adatti alle situazioni quotidiane di ascolto: condizioni che non abbassano il livello della tensione, ma ne accentuano la forza. Il radiodramma ha a che fare con una tecnica che è quella radiofonica, e con un pubblico occasionale, episodico, abituato ad ascoltare della musica con equalizzazioni molto particolari: non è più possibile pensare che possa essere soddisfatto dalla linearità di un racconto; occorre forse creare una visione più complessa utilizzando al meglio le tecniche avanzate. Spesso si usano in radio macchine di altissima qualità che però rendono la voce chirurgica, irriconoscibile rispetto alla varietà e alla fragilità della vita. Mai come in questo momento sarebbe bene lavorare per la radio come se non la si conoscesse. Penso alle prime esperienze fatte nella radio italiana negli anni Quaranta e Cinquanta, quando la voce veniva utilizzata per la pura sperimentazione, per ritrovare la verginità dell’ascolto radiofonico attraverso la ricerca sul suono. Deve inoltre esistere un’etica nei confronti del pubblico della radio: gli ascoltatori non possono guardare in faccia chi parla e questo richiede una chiarezza ulteriore nella relazione. La radio ha a che fare con un suono che non sappiamo dove vada a finire, che l’artista produce prima di tutto per se stesso, primo spettatore, non conoscendo la reazione degli altri. Si lancia, ma non si sa dove va a finire quello che si è lanciato. La scrittura per la radio, la sua drammaturgia, non può occuparsi solo della trama, ma deve contenere al suo interno ogni indicazione di tono, timbro, altezza e intensità della voce. Occorre avere consapevolezza del fatto che le parole che si pronunciano sono prima di tutto suoni che producono immagini. Vanno calibrati in funzione di ciò che si vuol far vedere, non in base al significato delle parole: la drammaturgia che le mette in campo è una drammaturgia musicale. Una voce deve permetterti di vedere un corpo. È questo il centro della ricerca sonora, che va di pari passo con la fabbricazione delle parole, perché alla radio le parole possono davvero essere costruite come dei manufatti. È possibile scrivere un radiodramma dove ci sono contemporaneamente dieci voci, come nella musica? È possibile una partitura musicale fatta di parole? Occorre azzardare. Oltre la semplice messa in voce di un testo, occorre cogliere la visione che si ha di quel testo attraverso la voce, strumento che suona, perché la radio non è per i non vedenti, ma per chi predilige vedere attraverso l’ascolto.
Chiara Lagani / Fanny & Alexander
Che cos’ha in comune il teatro con l’invisibile arte radiofonica? Il teatro è forse l’arte che coltiva e alimenta maggiormente il rapporto con l’invisibile in un fronteggiamento molto serio e appassionante, che richiede la più particolare tra le competenze: quella per le cose che non esistono. Chi si dedica a quest’agone, spettatore o attore, rinnova collettivamente un’occasione di stupore, perfino di sgomento, insieme a quella specie di trauma originario che innesca il rapporto con un mondo o una lingua dimenticata. È una sorta di squarcio che si apre di colpo su un mistero profondo, un buco. A leggere le cronache degli ascoltatori dei primi radiodrammi, la paura (e l’erotismo della paura), lo spavento patito nel buio, tra le coperte del proprio letto o al “sicuro” nella propria stanza, somigliano straordinariamente a questo buco. Un’emozione che ridisegna i confini della domanda sul rapporto tra realtà e rappresentazione. Un medium è sempre nuovo alla sua nascita e poi nel corso della sua vita rinasce infinite volte, perché le forme artistiche sollevano sempre questioni infinite. Ed è strano, perché è proprio nel suo agonistico rapporto con la realtà che il radiodramma finisce per scoprire mezzi e vie “non reali”. Altra caratteristica che affraterna evento teatrale e radiodramma sta nel fatto che entrambi non aspirano ad essere “capiti”, ma accolti, come ogni fatto misterioso e forte: si tratta infatti di puri mostri e vitalissimi, fatti di presenza, di fantasmi, di parole pronunciate, fonicamente plastiche, dunque di corpi, di luoghi sonori, mentali, transmentali, di invenzioni di inesistenti, epifanie, magherìe. Come possiamo domandare a un fantasma, a una visione, di spiegarci cos’è? Come accingersi oggi a comporre un radiodramma? Chi si avventura per questa strada avverte forse un po’ di solitudine al principio. Perché il radiodramma sembra a tratti un’arte dimenticata, caduta in disuso. Ha una storia forte, ma non sempre prossima. Ha il forte sapore di una lingua di cui abbiamo quasi dimenticato il significato, come la strana lingua fatta di fascino e mistero, luci e colori, cantata da Landolfi. Eppure chi deve comporre una scrittura in questa lingua nuova e dimenticata ha una grande occasione. In 338171, TEL al principio regnava una specie di libertà e di disordine, selvaggia e imperiosa: qualcosa di molto diverso da quello che si può trovare in una pagina scritta, o anche in quella viva e imprendibile del teatro. Un radiodramma è un animale che ha un suo respiro, che va assecondato, forse questo respiro si può chiamare ritmo radiofonico. Chi si avventura in questo strano rapporto con i fantasmi, insomma, sa oscuramente, come si sa solo nei sogni, che la parola viva occupa sempre uno spazio, ha veste e colore e un suono imprevedibile. Il teatro ritrova da sempre nel suo spazio profondo l’incomprensibilità e la violenza attiva del suono e della parola dei fantasmi. E il radiodramma, forse, ha la possibilità di spingere questo rapporto ancora più in là, in forme ancora misteriose, che necessitano forse di più tempo e di nuove, avventurose esplorazioni.
Claudio Morganti
Molti anni fa, Carlo Cecchi seguì una nostra intera prova de Il calapranzi a testa bassa, con gli occhi chiusi. Era a caccia di stonature, incerti ritmi, tempi morti e sbagliati, pause e silenzi privi di consistenza. È un ottimo sistema. Se siete cacciatori di stonature chiudete gli occhi e ascoltate. In principio fu il movimento e tutti vollero guardarlo e dissero: “Che spettacolo!” Poi alcuni (molto pochi invero) dissero: “Spegnete le luci che vogliamo sentire il suono di quel movimento!” e nacque così il teatro. Il teatro è faccenda d’orecchio. Provate. Sedetevi in sala e chiudete gli occhi. Fate attenzione però a non farvi vedere dagli attori. Potrebbe sembrar loro che state dormendo e questo non sarebbe carino. Ma potrebbe accadere anche di peggio. Cullati da giusti suoni e felici intonazioni potreste addormentarvi davvero, magari russare e questo sarebbe uno sconvenientissimo atto di grande maleducazione (a volte si è maleducati senza volerlo).
Compito del teatro non è mostrare ma piuttosto evocare. Favorire la nascita di visioni, individuali, private. Ma molte volte il teatro si confonde e crede di essere qualcosa di spettacolare e tristemente perde competizioni con cinema e tecnologie. È per questo che molte volte è meglio tornarsene a casa e accendere la radio.
Stefano Ricci
Le ragioni per le quali ho iniziato a interessarmi di registrazioni sonore sono consequenziali al disegno, di cui mi occupo, e non basate su una progettualità inizialmente legata al radiodramma. Di fatto ho cominciato un anno fa a riprendere con la macchina fotografica sequenze di movimento di persone, animali, cose, luoghi, per poi usarle come base per piccoli film di animazione. Così facendo mi sono ritrovato tra le mani i suoni derivanti dalle sequenze: da qui è cominciato, con l’aiuto di Cristiano Pinna, un lavoro di montaggio che mi ha dato la possibilità di sperimentare i suoni stessi e di scoprire, anche in un formato di breve durata, il piacere del montaggio sonoro. Ho proseguito poi questi esperimenti, affascinato dalla potenza che il suono ha di restituire l’esistente, la forza visiva che il suono restituisce all’udito. Registrando i suoni ho scoperto la meraviglia dello spegnere il senso più allenato, quello della vista, per concentrarmi sulla vita organica, cogliendola, studiandola, ascoltandola senza vederla. Disegnare o avere occasioni diverse, come questa che mi ha portato a lavorare sul radiodramma, per me significa ogni volta cercare una pista mossa dalla curiosità verso l’esistente. Tempo fa ho scritto una canzone sulla società italiana di oggi dal titolo Chiedi alla Scimmia: una sorta di fiaba nera che ha inizio con il ritrovamento di una zampa di scimmia nel parcheggio di un supermercato. Quando l’ho proposta al mio amico musicista Zeus, mi ha rivelato che in passato anch’egli aveva fatto un sogno proprio su una scimmia, un sogno molto forte che gli ho chiesto di leggere e registrare di prima mattina, appena sveglio, ancora steso sul letto. Il risultato è stato molto bello. Così ho fatto ascoltare la registrazione alla mia fidanzata, la quale a sua volta mi ha raccontato che a sette anni aveva sognato una scimmia: ha preso il quaderno su cui ancora oggi raccoglie i suoi sogni e ha iniziato a leggere e a tradurre il sogno dal tedesco, che è la sua lingua d’origine. A partire da questi materiali e dal testo iniziale di Chiedi alla scimmia è nato poi il radiodramma che presento alla Festa della radio: un insieme di racconti, sogni, visioni e suoni, espressione di una curiosità verso l’esistente.
Teatro Sotterraneo
Quel che sin da subito ci ha affascinato lavorando al progetto Finale del mondo, messo in scena lo scorso anno a Santarcangelo 40, sono le due relazioni completamente diverse che un radiodramma messo in scena instaura con lo spettatore: quella dell’ascolto, e quella teatrale. La prima ha a che fare con una dimensione che induce attraverso l’ascolto alla visione; l’altra pone la visione come dato fondativo della relazione. E se il teatro può evocare mondi, il radiodramma ha un’ampiezza di racconto che consente di sconfinare oltre l’orizzonte della menzogna o della simulazione, chiedendo allo spettatore una credibilità totale, laddove il teatro invece pone convenzioni. Nella dimensione di puro ascolto il radiodramma amplia le possibilità di menzogna, che sono al contempo possibilità di verità altre: questo lo scarto che ci ha maggiormente affascinato. Con Finale del mondo abbiamo posto la visione al centro del discorso svolto in un momento preciso, la finale dei campionati del mondo di calcio, e in un luogo preciso, uno stadio di calcio, quello di Santarcangelo, e la credibile menzogna al centro del racconto radiofonico, radiocronaca di una ambigua finale, per poi far collassare attraverso l’incontro tra l’azione performativa e la visione uditiva le due rette che avevamo portato avanti in parallelo. Due mondi e due pubblici hanno fruito lo stesso evento, liberi di poter reinterpretare e reinventare ciò che veniva evocato: ciò che ci ha affascinato dell’incontro tra teatro e radiodramma è stata anche la sfida che la coesistenza coerente tra i due mondi pone: contemplare entrambi gli aspetti, quello del radiodramma e quello del teatro, compenetrando visione e racconto, giocando sulla questa distanza che collassa in un luogo e in un momento comuni, modo e misura per mettere in relazione i due dispositivi. Quando ci si avvicina all’arte del radiodramma la prima sensazione che si prova è quella di essere un po’ come degli intrusi se la propria specificità è il teatro. Si tratta, dunque, di mettere in relazione questi dispositivi diversi, cercando un equilibrio tra i due. Il punto di partenza di chi si avvicina al radiodramma dal teatro è per certi versi distante; una distanza che però è anche una possibilità di porsi attraverso un punto di vista più ampio. Ciò che affascina di un radiodramma, ciò che gli consente di suscitare nuovi interessi, non è forse la possibiltà di raccontare in sé, l’arte dell’affabulazione, quanto invece la possibilità di aprire a tante realtà altre, di mentire e di destabilizzarmi piuttosto che incantarmi, suggerire prospettive diverse che la visione attraverso l’ascolto del mezzo radiofonico rende possibile. Perché il radiodramma può mettere l’ascoltatore in crisi, può ancora indurlo a chiedersi: “ma sta accadendo davvero?”.