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Impertinente Festival: il teatro di figura a Parma, dal 7 all'11 dicembre


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Dalla Cultura alla Scuola: ''Cosa abbiamo in Comune'', il 7 settembre a Bologna


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INTERVISTE E INCONTRI > Roberto Latini

Santarcangelo 41, ultima sera, ore 22.30: incontriamo Roberto Latini seduti sul muretto del Teatrino della Collegiata, poco dopo la replica finale di Noosfera Titanic. La Compagnia Fortebraccio è impegnata nello smontaggio e, prima di raggiungerla, Latini ci racconta il suo modo di scrittura, parla di non-personaggi, di attore e del Festival di Santarcangelo. 


Ci piacerebbe partire dalla parola “noosfera”, che accomuna questo ultimo Titanic al precedente Lucignolo.

Da qualche tempo avverto il desiderio di proporre un programma e non un progetto. Un progetto ha una durata “complicata”, da dover difendere nel tempo, e si fonda su uno schema di pensieri che forse non sono capace di portare avanti. Ci sono spettacoli che assumono la loro fisionomia solo dopo che hanno esaurito il loro percorso, per questo preferisco attualmente darmi dei programmi, piuttosto che dei progetti. Rinuncio alla possibilità di portare a compimento un progetto, parola che mi fa pensare all'architettura, a una sapienza che il teatro non possiede, perché il teatro non può essere previsto. Fatta questa premessa, negli ultimi due lavori ho introdotto la parola “noosfera”, che definisce la sfera del pensiero umano, e per ulteriore estensione può significare una coscienza collettiva. La coscienza collettiva è per me una possibile declinazione della parola “teatro”. Quindi si è trattato di manifestare una coscienza collettiva che avesse origine da Lucignolo e da Titanic, o per meglio dire dai concetti che entrambe le parole contengono. Noosfera Lucignolo è un fuoco sul desiderio che Lucignolo ha di andarsene, prima ancora di voler raggiungere il Paese dei balocchi. È l'attesa di questo personaggio, che aspetta la mezzanotte perché arrivi un carro che lo porti via. Mi ha sempre affascinato l'attesa, piuttosto che la destinazione finale. Lucignolo avverte un disagio e lo spettacolo parla del suo desiderio di andare via, prima ancora di avere in mente un Paese dei Balocchi dove dirigersi. Ci sono l'attesa e il disagio, che riguardano anche l'essere teatrante e l'essere italiano. 
Titanic è il movimento successivo del programma Noosfera. Se quel carro che va al paese dei balocchi avesse avuto un nome, probabilmente si sarebbe potuto chiamare Titanic. L'America, la nave che si dirige verso il sogno americano è qualcosa che noi, come tutti gli uomini del Novecento, abbiamo avuto addosso, e ce l'abbiamo ancora (ed è paradossale che attualmente siamo noi “l'America”, per tante persone che vedono in Lampedusa il loro sogno). Questa riflessione ha però poco a vedere con lo spettacolo, se non come punto di partenza. Quando ho mandato le righe di presentazione per il programma del Festival scrivevo ciò che vedevo in quel momento, non si trattava di vere e proprie note di regia. Era una proposta. Leo De Berardinis distingueva fra teatro e spettacolo, io mi permetto di usare la parola “spettacolo” pensando di poterla distinguere dalla “rappresentazione”, che è figlia di molto teatro recente, quando si propongono semplici esercizi di intelligenza. Per me il teatro è un'occasione, dove si mostra qualcosa che non è compiuto, che è difettato, che ha bisogno della partecipazione – addirittura – dello spettatore. Lucignolo e Titanic sono spettacoli che ammettono lo spettatore, si rivolgono agli spettatori perché ci sono, non perché sono presunti. Il teatro non succede a prescindere, succede "in quanto".

Come hai lavorato dal punto di vista drammaturgico? 

Noosfera Titanic è per ora un nucleo che non ha la pretesa di potersi ricomporre, pretende anzi di naufragare. Il concetto di Titanic ci appartiene perché ha a che fare con l'interruzione della festa. Il Titanic è stata la più grande festa della storia moderna, ora però è come se qualcuno ci avesse avvisato che la festa è finita. Qualcuno che ha acceso la luce e ha detto: «Tutti a casa!». Nello spettacolo ci sono tre versi di Hans Magnus Enzensberger con i quali lo scrittore apre la raccolta di poesie La fine del Titanic. Questi versi si concludono con le parole “sono io”. Sono io è la chiave di interpretazione della mia proposta. Poggiamo i piedi su qualcosa che è naufragato, o sta per naufragare. Qualcuno ha sbattuto contro l'iceberg, qualcun altro ci sta per sbattere. Dirò di più: forse l'iceberg è l'America, il sogno. Forse l'iceberg è dire che il sogno non si compie, che non può compiersi. Allora o la festa è finita oppure ci teniamo un sogno da conto. Tra le due preferisco la seconda.

Alla fine dello spettacolo entra in scena Donna Elvira...

Il finale è il monologo di Donna Elvira da Don Giovanni di Molière, un pezzo della letteratura teatrale mondiale, ma che per me ha a che fare con il teatro italiano stesso. Ne ricordo una versione di Strehler, Elvira o la passione teatrale (1986, n.d.r.) con Giulia Lazzarini. Lo spettacolo era tratto dall'Elogio del disordine di Louis Jouvet, un testo che reputo importantissimo. Si tratta di lezioni di teatro annotate da un attore che scriveva le sue impressioni a caldo nei camerini. Qualcuno che parlava di sé in maniera non teorica, che si chiedeva: «Chi sono io?» subito dopo essere uscito dal palcoscenico. Queste lezioni sono diventate uno spettacolo per me memorabile, in cui il monologo di Elvira veniva riproposto più volte: Strehler faceva la parte di Jouvet, dava indicazioni alla Lazzarini, le faceva ripetere il monologo finché non si trovava la giusta misura. Titanic è destinato a questo monologo, per quello che significa. É una preghiera di una dama velata, Donna Elvira, che parla con Don Giovanni, personaggio che compare di tanto in tanto sul fondo. Don Giovanni non è però un'assenza che si palesa, ma è una presenza che si svela, che fa da specchio; sta dalla parte opposta dello spazio rispetto a Donna Elvira (che sono io a interpretare), sta in piedi su una sorta di palchetto, con un sipario, forse dopo che la tela è calata. Don Giovanni alla fine ride. La sua reazione è la stessa che noi tutti abbiamo di fronte al teatro, anche a tanto teatro recente. Ci facciamo una risata per consolarci, e se non riusciamo a ridere restiamo pure un po' seccati. Però, per fare questa risata, dobbiamo applicare un'intelligenza, che a mio avviso diventa una specie di condanna. Ma il teatro non dovrebbe essere condannato all'intelligenza... il teatro, per come lo vedo io, dovrebbe essere la possibilità di rinunciare all'intelligenza.

Quella risata finale, dopo aver preso coscienza del naufragio, può essere letta anche come un “nonostante tutto”?

Sì, è una risata, un applauso, una fine. Non c'è qualcosa che segue. È la fine di un percorso, lo spettacolo è composto da alcune tappe, credo molto chiare rispetto a uno “straccio” di drammaturgia, o a una traccia di quello straccio. Queste tappe portano l'attore quasi fuori dallo spazio scenico, molto a ridosso degli spettatori. Mi piacerebbe che questo spettacolo potesse essere sempre fruito da molto vicino, appena dietro a questo “entra una donna velata” che separa il pubblico dal palco. Uno spazio in cui il teatro succede. Tornando al discorso sulla rappresentazione, aggiungo che chi propone uno spettacolo in realtà non lo detiene, non ce l'ha. Su questo sono ripetitivo, perché per me è un pensiero davvero semplice e costante: noi lo spettacolo lo proponiamo e basta, e il teatro succede in questo spazio di mezzo. Quando sulla scena divento Donna Elvira vado fuori dal centro dello spazio, mi avvicino alla platea senza poterci entrare. Nel momento in cui appare Don Giovanni io sono fuori dallo spazio scenico, sono in quella via di mezzo, sono in quel mezzo in cui spero possa accadere il teatro. Se siamo capaci di teatro lo siamo insieme, non lo siamo solo sul palco. 

Ripensando ad alcuni tuoi precedenti lavori, in questi Noosfera sembra di vedere un graduale allontanamento dal personaggio, quasi una impossibilità di delinearlo. Il concetto stesso di personaggio è sempre stato per te un “problema”, però in questi ultimi lavori sembra non essere più ammesso: Lucignolo è davvero un “noi” possibile, mentre in Titanic il personaggio forse è l'attore stesso...

Santarcangelo 41 e tutti i dialoghi che in questi anni ho avuto con Ermanna Montanari sono stati sicuramente dei fattori determinanti verso questo approdo. Negli ultimi tre anni ci siamo interrogati molto sulla questione dell'attore, mettendo a confronto i nostri due diari. Fino al lavoro su Lucignolo ho messo al centro personaggi o situazioni, ho sempre pensato che i classici potessero essere un'occasione, ma non perché siano più facilmente rappresentabili (perché allora dovremmo dire che nel teatro di prosa esistono bravi attori che lavorano sui classici in maniera splendida). Nel teatro “di ricerca”, che dovrebbe prendersi una responsabilità diversa, tutto quello che ha a che vedere con la tradizione viene invece un po' mascherato, cammuffato, mistificato, diminuito e anche sprecato. Spesso vedo delle parodie, degli scimmiottamenti, perché quando non si è davvero in grado di stare dentro a un personaggio allora si crede di poterlo interpretare in modo “strano”, diverso. 
Da Lucignolo in poi, per adesso, l'esigenza di usare un testo di partenza (come è stato Otello per Iago) è venuta meno: in Lucignolo non c'è Collodi, e nell'ultimo lavoro non c'è la storia del Titanic. Preferisco parlare di concetti, e devo tornare a Enzensberger; nel suo riflettere su un'immagine possibile per la fine del mondo, lo scrittore suggerisce di non pensare a un'unica apocalisse, ma a tanti piccoli eventi in successione. La fine del mondo non arriverebbe in una soluzione unica ma per tappe, delle quali la prima è l'affondamento del Titanic. È un po' patetico riportare tutto questo alla situazione teatrale che stiamo vivendo, eppure molte cose risuonano. Questa edizione del Festival dà all'attore una rivincita, dopo tutto quello che c'è stato nel teatro italiano e non solo. Santarcangelo 41 dichiara qualcosa di molto forte e pesante: non ce la si fa a estromettere l'attore dalla scena. Non ci si è riusciti, con buona pace di tutti quelli che ci hanno provato.

In che modo, quindi, l'attore (e in particolare la tua pratica di attore, regista e responsabile alla direzione artistica del Teatro San Martino di Bologna) ci parla del contesto più generale che stiamo vivendo?

Nella costruzione dello spettacolo avevamo a disposizione materiali eccedenti rispetto alla fisionomia che avrebbero preso le singole scene. Abbiamo rinunciato ad alcuni passaggi che sarebbero potuti diventare dei “pezzi forti”, in particolare penso alla relazione fra me e le musiche di Gianluca Misiti. Abbiamo provato a toglierci da sotto i piedi quanto avevamo di sicuro, e non nascondo che questa sia stata la parte più problematica. Detto questo, non posso che parlare del teatro italiano di oggi, che è composto per lo più da persone che hanno “un metro quadro” sotto i piedi: nessuno fa un passo oltre quel perimetro, perché abbiamo tutti paura di cascar di sotto. Sappiamo quanto è fragile e poco sostenuto quel piccolo spazio, mentre si fa un gran parlare di circuiti, di festival, della necessità di avere una compagnia o dell'impossibilità di averla... Dal mio punto di vista mancano le relazioni-ponte, le saldature tra questi pezzi. Ma è anche vero che chi sta in una dimensione artistica si colloca in una disposizione che diventa disponibilità, in altre parole diventa una responsabilità che occorre assumersi. Vedo invece molta paura, non-coraggio. Mi rifaccio a un testo che ho scritto per Potere senza potere nel 2008, dove terminavo l'intervento con alcune righe di “coraggio”. Dal mio punto di vista è questa la chiave, avere meno paura, non rincorrere sempre l'idea che si vuole dare di sé al mondo. “Artista” non è una parolaccia, e una responsabilità. Mi infastidisce il vizio che hanno alcuni di definirsi artigiani anziché artisti. Un detto popolare sostiene che il bravo falegname ha una ferita sola. Un bravo artista non può avere una ferita sola, non perché debba essere un San Sebastiano, ma perché è una persona che si trova in mezzo ad altre persone che fanno mutare la sua opera. 
Il teatro “in platea” cambia a una velocità inaudita rispetto alle trasformazioni che avvengono sul palco. Noi spettatori siamo continuamente avanti, non abbiamo più bisogno del personaggio perché i livelli di comunicazione sono mutati rispetto a quando il personaggio era un tramite, un filtro di messaggi, sentimenti, emozioni o concetti. Gli spettatori sono sempre più capaci di leggere. Sono più avanti, o altrove.
   

COMPAGNIE
   

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ottobre 2016
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Le arti della scena

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Santarcangelo · 13
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Immagini a cura di Osservatorio Fotografico, note a margine su Pinocchio

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SANTARCANGELO •12
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Settembre 2011
Arca Puccini - Musica per combinazione
Rock indipendente italiano e internazionale