Una nuvola di polvere che si solleva, un'invasione accennata, schiamazzi. Prossima alle mura, nello Sferisterio, là dove a Santarcangelo nel Seicento si giocava a rincorrere una palla di pelle armati di bracciali di legno, una babele di figurine gialle si addestra festosa all'assalto. Gli adolescenti di Eresia della felicità cominciano a fare pubblicamente i conti con le esplosioni e le fragilità della loro energia. Lì dentro, nell'arena, aleggia ancora molto disordine ma tutt'intorno un incerto e pacato raduno di passaggi già ci consegna la traccia di un'insolita partecipazione. Marco Martinelli grida. Mancano le tribù di Brasile, Stati Uniti e Napoli che presto ci raggiungeranno mentre Mazara del Vallo arriverà il prossimo week end, poi ci saremo davvero tutti. Duecento. Ragazzi qualsiasi del mondo. Al centro, appeso al muro, come un santino, il ritratto di Vladimir Majakovskij, il ribelle dai versi aguzzi. Si dispongono in cerchio e li raggiunge Ermanna Montanari con un grosso chiodo di ferro in mano. Immagine mondo, arnese di un rito da fare insieme. Esorcizziamo l'andare in scena, non si sa quello che accadrà e chiamiamolo “bello” questo nostro scongiuro. È tempo di “ascoltare la carnina accanto a noi”, di farci coro. Ci si presenta, si balla il Ballo di San Vito sul ritmo del tama senegalese, si canta all'unisono, si ripetono parole e gesti dei compagni nel contrasto delle forme e delle altezze finché non si è stremati, finché non si palesa l'immagine-embrione e un esercito di cavallini scalpita per la prima volta il suo poema.
Lucia Cominoli
Non è Ferdydurke ma la sensazione è quella: mi sento sbalzato indietro nel tempo in una Santarcangelo dei ragazzi, in un clima da primo giorno di scuole medie, come accade al protagonista del geniale libro di Witold Gombrowicz. Lo sferisterio è, infatti, invaso ogni giorno da duecento ragazzini – una selezione mondiale dei laboratorianti della non-scuola del Teatro delle Albe di questi anni – i quali compongono il coro di questo laboratorio su testi di Majakovskij, o meglio una “creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij” intitolata Eresia della felicità. Una prima scoperta è che tutti gli adolescenti, “eretici” inclusi, costruiscono un impenetrabile muro fatto di gesti, linguaggi e codici impossibili da decifrare. Chi si avventura in questo tentativo di approccio, come è capitato a me, chi cioè prova ad attraversare goffamente quell'immaginaria linea, riceve solo in cambio sberleffi e prese in giro, tutte meritate del resto. L'unica cosa che posso fare è aggirarmi “come un bi ba bo” artificiale, cercando di carpire qualche frase, qualche grido di questo potente vitalismo: “Ho in odio / ogni sorta di vecchiume! / Adoro / ogni sorta di vita!”, come scriveva il giovane Majakovskij. Il tentativo diventa una tentazione, quella di dire che l'adolescenza fa schifo, con tutto il corollario di puzze e brufoli della crescita, come descriveva nel suo romanzo Gombrowicz. Ma non è vero. Tutto crolla non appena il coro si dispiega sulla scena e ogni volto diventa un mondo, attraversato da un mistero inspiegabile: ogni gesto è unico, ogni corpo diventa un grande abbasso rivolto agli adulti, ogni nome e cognome possono essere quelli di un re.
Nicola Villa
Il secondo giorno del teatro laboratorio Eresia della felicità vede già un'accelerazione su quella che si potrebbe definire la questione del nome. Come ti chiami? Quanti anni hai? Da dove vieni? Sono le prime tre domande di qualsiasi incontro, le stesse che, è facile immaginare, si siano posti fra loro i 200 adolescenti che partecipano al laboratorio del Teatro delle Albe, ogni sera allo Sferisterio. La fase di riscaldamento, che ha contraddistinto le prime ore di Eresia, è una fase in sostanza di gioco, il gioco delle presentazioni: i ragazzi si dispongono in cerchio e, dopo aver ripetuto un rito scaramantico, sono invitati a dire il proprio nome accompagnandolo con un gesto, un'intonazione, uno stile che possa concentrare la personalità allacciata a quel nome. Il nome e il gesto sono quindi emulati dal coro di tutti i ragazzi: c'è chi finge di leggere il suo nome sotto la suola della scarpa, chi improvvisa un balletto, chi mima una mossa inspiegabile e chi, ancora, lo urla al cielo con quanta forza ha in gola. Questo è un momento divertente sia per gli agenti del gioco, sia per chi osserva, ma, nonostante il clima ludico, è evidente un aspetto interessante e paradossale: ogni ragazzo, ogni individuo, consegnando il suo nome al coro, quindi alla collettività, se ne espropria innalzandolo allo stesso tempo. In sostanza è come se si svelasse la convenzione del nome, la sua inutilità e, una volta condiviso, quello stesso nome-cognome diventasse materia viva: i nomi e i cognomi si trasformano in versi di poema, hanno un loro ritmo e una loro musicalità. Accade così che il nome e il gesto di un decenne, un bambino autoctono romagnolo, diventi il verso più ripetuto, più efficace e potente: “Matteo Benini Fraiese!”, detto con i pugni stretti in alto in ginocchio. Così un nome qualunque viene strappato dal suo anonimato e del resto, ci si chiede, quanto fosse anonimo Vladimir Majakovskij quando diede alle stampe il suo primo poema a diciassette anni, un poema omonimo tra l'altro, nel quale si legge: “Mi pare a volte di essere / un gallo olandese / oppure / il re della città di Bobrovski, / ma a volte / più di tutto mi piace / il mio stesso nome: / Vladimir Majakovskij”. Ma siamo a Santarcangelo, non a Bobrovski, non c'è spazio per nessun “gallo olandese”, tant'è vero che nel momento conclusivo, mentre il coro ripeteva “Matteo Benini Fraiese!”, si è aggiunto un suono animale emesso da uno dei più piccoli, Robbie. Un suono aspirato e profondo come quello di un'aquila che si getta dall'alto: o meglio come quello di uno pterodattilo, come ha rivelato il suo esecutore. Per la cronaca, all'apice dell'Eresia della felicità di sabato 9 luglio, si è verificato un fenomeno straordinario: Matteo Benini Fraiese è diventato Vladimir Majakovskij.