DALLA SCIOCCHERIA ALL’INVISIBILE
Incontro con Marco Martinelli
di Nicola Ruganti
Il primo istante del primo giorno
Il destino ha in sé una componente di mestiere, ma è solo una componente. Quello che voi non sapete, perché non era visibile, è che quando mi sono trovato in mezzo a loro il primo giorno avevo il cuore che mi scoppiava. Per qualche secondo, che mi è sembrato infinito, ho detto “non ce la faccio, questi mi travolgono, mi mangiano” e credo che sia un’esperienza umana che tutti conosciamo, quando siamo attraversati da sensazioni opposte nello stesso istante. Mi sono detto di avere peccato di presunzione, perché la non-scuola è davvero come un cammino di diecimila miglia che parte dal primo passo. Venti anni fa abbiamo cominciato con venti ragazzi di Ravenna, ma non sapevamo cosa stavamo facendo, non eravamo appassionati di laboratori, avevamo e abbiamo tutt’ora la convinzione che il teatro si impara facendolo. Solo dopo quattordici anni abbiamo messo un piede fuori Ravenna, e solo dopo quattordici anni abbiamo iniziato a lavorare con gruppi composti da più di venticinque persone. Il primo vero scarto è stato Arrevuoto a Napoli e Scampia, e non l’ho deciso io, perché quando siamo arrivati avevamo proposto di lavorare con quattro gruppi diversi. Ma l’unico modo per rompere “la crosta locale” era fare un raduno con tante persone, e arrivare a un unico spettacolo dopo mesi di laboratori più piccoli.
Mi scoppiava il cuore anche perché non ho preparato tanto il lavoro – perché certo puoi darti degli strumenti, ma non puoi prepararti più di tanto, è il terreno a dirti quello che devi e puoi fare. Quando mi sono trovato lì ho avuto il cuore nei piedi, ho avuto un momento di terrore vero, la massa mi ha fatto una paura fisica. A salvarmi è stato il cerchio. Volete che non pensassi che a vedermi ci sarebbero stati personaggi importanti, critici teatrali, studiosi? Nella mia testa c’era l’inferno. A salvarmi è stato il fatto che dove c’è il rischio cresce qualcosa che ti salva, e noi delle Albe prendiamo questa affermazioni alla lettera. Il cerchio ti salva dalla paura del dire “io sono Marco Martinelli e devo dimostrare qualcosa”, come se fossero tutti a vedere il mio fallimento.
I ragazzi capiscono subito, se si lavora nel modo giusto, che la guida è una guida e un asino allo stesso momento, è qualcuno che non si mette in posa ma è al loro stesso livello, è uno che sta lì con loro, con la sua carne e il suo terrore. Nel cerchio mi è passato tutto, sono entrato nel gioco e lì non pensi a nulla. Gioco e teatro vanno dalla forma del cerchio alla forma centrale, ma la garanzia di tutto è il cerchio, perché anche il quadrato frontale si va a inscrivere nel cerchio, nel senso di “ma cosa ce ne frega di quelli là”.
Quando Francesca – che è una bambina di quinta elementare – dice “se si accendono le stelle”... lei non sa nulla di Majakovskij: in quel momento lei è Majakovskij. Questo lei si fa attraversare dalle parole e la sua voce ce le restituisce insieme alla sua carne e alla sua psiche.
Sono duecento vite, diamanti grezzi che devi capire come mettere in azione. Vale lo stesso discorso per l’Internazionale: loro si muovevano con quelle note, tenendo in mano una gonna nera. Ho chiesto loro di sventolarla tenendola col pugno alzato. Ho visto questa scena quando l’ho fatta, loro non sanno nulla della Rivoluzione Russa... eppure raccontano di altri lutti, la loro faccia seria “dice” anche se non pretende di farlo. Con dieci giorni di tempo e duecento persone divise in tribù proviamo a vedere che succede a prendere questi versi, gli “stuzzicadenti” del Majakovskij lirico, e a metterli in mano ai ragazzi di Eresia della felicità. Non stiamo lavorando sui Tre porcellini, gli stiamo consegnando i versi di un poeta suicida: c’è un rischio, ma chi se non un adolescente può imbracciare quei versi e farceli sentire in una maniera che – in un qualche modo – ci sposta? I ragazzi della vita di Majakosvkij non sanno niente: hanno solo le sue parole. Le poesie hanno la forza furibonda di colpire l’inclita e il colto, l’intellettuale e il popolo che ha un cuore che batte. Le parole di Majakovskij colgono tutto quel viluppo che un adolescente incarna nelle pulsioni istintive tra morte e vita.
Il rapporto teatro-pedagogia non è distinto dal rapporto teatro- politica. Il problema non è capire dentro a un’esperienza quale sia la percentuale di teatro e quale di pedagogia, come se fossero porzioni separabili. Così non ha senso, anche perché bisognerebbe anche chiedersi quanta politica sia presente, ma non si può ragionare per quantità. Esiste infine anche una terza sfera, quella del mistero, dell’invisibile, che rappresenta un asse verticale tra noi e il cosmo. Questa sfera è fondamentale per non fermarci alle visioni orizzontali evocate dal mondo politico e da quello pedagogico.
Il problema, come ho già detto, in nessun caso può risiedere nelle proporzioni e nelle quantità: davanti a questi tre livelli – pedagogia, politica e metafisica – mi devo difendere perché se il mio teatro si ferma a una sola di queste componenti perde la sua ragion d’essere, che deve rimanere quella di creare opere, visioni che emozionano. Per questo il mio lavoro teatrale deve essere travolto da tutte le urgenze pedagogiche, politiche e metafisiche, accoglierle con uno stomaco da struzzo, che digerisce sassi e metalli.
L’obiettivo è quello di far bruciare queste componenti all’interno dell’opera in modo che il lavoro artistico non si limiti allo svolgimento di un “compito” civico, ma sia il frutto del rapporto tra l’invisibile e la polis. Peter Brook diceva che tutte le strade artistiche sono valide purché abbiano un cuore. Vorrei fare un esempio per descrivere due diverse attitudini creative: Canova e Gaudì. Canova, questo genio della scultura, non “faceva” personalmente le sue opere: disegnava e sovraintendeva il lavoro di bravissimi artigiani che eseguivano il suo disegno. Gaudì ha iniziato a costruire la cattedrale di Barcellona, la Sagrada Familia, e l’ha costruita pasticciando e impastando mettendosi dentro l’opera, la cui costruzione prosegue ancora oggi. Aveva innescato un meccanismo
che aveva a che fare con la polis e con il mistero.
I punti critici e di esaltazione di Eresia della felicità sono un grande viluppo di nodi, un gomitolo che ha a che fare con il rapporto tra un signore di oltre cinquant’anni e con la sua relazione di responsabilità con duecento ragazzi in gruppo, ma anche con ognuno di loro in maniera singola. Questo ha per me una valenza particolare, è uno dei punti nodali del progetto.
La domanda “perché sono qui?”, gli interrogativi sulla vita e sulla morte sono questioni che l’adolescente sente fortissime, ma senza esprimerle in termini filosofici; così come centrale è per lui il rapporto con gli altri, l’identità nella tribù, ma allo stesso modo capisce che nell’alterità si può celare inferno. Le prime grandi ferite riguardano infatti il rapporto con gli altri, l’essere consapevoli che esiste la possibilità di rimanere fregati, pur non avendo letto Sartre! È necessario non perdere quel fuoco di vita, è un passaggio di “sbilencaggio”, è qualcosa di sacro, non si ha più l’oro dell’infanzia e non si è ancora ingessati come tanti adulti. I ragazzi sono in quella fase in cui si è già qualcosa, ma si ha il sospetto di poter essere anche altro; ognuno sperimenta in sé la possibilità di essere un condominio di differenze. In teatro posso essere una sera Amleto e una sera Otello: è una sperimentazione che l’attore fa su di sé, affascinante e terribile, il teatro mantiene vivo nel suo statuto dionisiaco questa instabilità.
Se un ragazzo arriva dire “io me ne infischio di voi creatori che non ci sapete dare versi veri” non possiamo che pensare che una siffatta affermazione non possa che avere una ricaduta pedagogica, politica, metafisica assolute: in quella dimensione avviene il passaggio che porta dalla scioccheria all’invisibile.
Durante Eresia della felicità c’è una tensione fortissima tra gioco e teatro che appartiene a tutto il percorso del Teatro delle Albe. La prima cosa che accade con i ragazzi allo Sferisterio, quando mettiamo in atto le azioni, è il cerchio, è il momento del gioco. Più riesci a far infuocare il cerchio iniziale tanto più il plotone si infiammerà. Il fuoco troverà una forma, per il rapporto tra Dioniso, il Dio del fuoco, e Apollo, il Dio della forma. Il teatro vive della tensione tra queste due versanti opposti. Una componente fondamentale di questo gioco, direi concettualmente centrale, è la scioccheria. Blake, con i suoi aforismi fulminanti, diceva: “Se non ci fossero gli sciocchi noi dovremmo esserlo.” Il mio modo di essere sciocco è l’ottava del Boiardo dall’Orlando innamorato. Mi metto in gioco e lo faccio attraverso una tecnica che dimostra che qualcosa so fare, ma non è una tecnica complicata, perché si basa su ritmi musicali molto semplici.
In questo modo i ragazzi comprendono che la guida è un “asino” come loro: non sono un vecchio che vuole fare il giovane! Nonostante i miei capelli bianchi, sono disarmato davanti alla vita esattamente come lo sono loro. Non sono lì per dire loro che devono crescere, o che devono dire parole politiche: sono lì a giocare con loro, è questo il momento della scioccheria. Moby Dick e la Divina Commedia sono due grandi giochi in forma di scrittura impastati di pedagogia, politica, metafisica.
La scioccheria è un concetto chiave, è una pratica che non si assesta sul divertimento, è la nudità che diventa un’arma perché l’altro non riesce più a guardarti con il sorrisetto. Qui diventa una pratica di condivisione su ciò che siamo, sulla nostra umanità, sul rispetto assoluto per l’altro che spesso diventa affetto.
Bisogna essere “tecnici di Dioniso”, essere fuoco e ghiaccio nello stesso tempo. Nel momento in cui questo avviene oltre all’emozione si aggiunge la tecnica: il cuore non può ripetere quell’illuminazione, ma se non riusciamo a ripeterla non roviniamola. È doveroso salvaguardare quel momento. Chi assicura che si preservi la poesia è proprio il ragazzo, anzi quella parte di identità che lo fa diventare “tecnico di Dioniso”. La struttura di Eresia della felicità deve essere capace di restituire l’anarchia, altrimenti abbiamo perso. Se non si riesce fondere fuoco e forma non funziona. Questo cammino va dall’anarchia iniziale alla strutturazione finale e ha alcuni passaggi nodali: quando insisti con la ripetizione, dispositivo che utilizziamo con frequenza, grande è il rischio di spegnere il fuoco iniziale. La responsabilità tecnica è proprio quella di mantenere viva l’adrenalina anche nella ripetizione. Tenere la scioccheria come passaggio per il recupero della nudità, dell’essere umano disarmato: solo in quell’essere nudo possiamo schivare la truffa e sfiorare la felicità
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