Questa è la fine. La fine non solo del festival ma di un triennio. L’Osservatorio critico è nato nella “strana estate” del 2008 quando un coordinamento di artisti aveva sostituito la direzione artistica del dimissionario Bouin. Quell’esperienza, Potere senza potere, è stata per noi il nucleo fondativo, portatore di un’idea di festival ben precisa e differente: tornare a un festival internazionale in piazza, non fare una notte bianca, incontrare i cittadini attraverso laboratori e altre occasioni di confronto al di là delle opere. La direzione artistica è stata affidata in tre anni alle tre compagnie storiche del territorio (Socìetas Raffaello Sanzio, Motus e Teatro delle Albe), affiancate da un coordinamento critico-organizzativo composto da Silvia Bottiroli, Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci.
C’era dunque una volta uno spazio sospeso, senza “direttori”, una sorta di crepa nel sistema in cui si è inserito il progetto triennale.
Le parole d’ordine di quel momento indeciso e “anarchico” adesso sono difficili da pronunciare, perché sono entrate nel lessico di questa gestione triennale, e la rottura iniziale è divenuta progetto di costruzione nel tempo.
Se nel 2008 i discorsi sul futuro erano sulla bocca di tutti, in questi mesi è sembrato lecito parlare solo del presente. Diciamo subito una cosa: il portato di questi tre anni è stato altissimo, in tre anni si è riusciti a passare dal “problema Santarcangelo” all’eccezione Santarcangelo. Non discutere di futuro mostra già segnali di futuri problemi, e speriamo che non sia così.
Perchè non si discute del futuro?
Dovendo immaginare un ipotetico Santarcangelo 42, ci disponiamo quindi a cercare un’idea che sostenga la responsabilità culturali che i tre direttori e il coordinamento critico e organizzativo si sono presi in questi anni.
Le edizioni 39, 40 e 41 sono state caratterizzate da tre differenti idee forti di festival, tre percorsi ai quali corrispondono, piacciano o meno, tre differenti idee di teatro. Chiara Guidi ha contagiato il festival, la selezione delle opere, con una visione molto forte di un teatro basato sulla voce, il suono e quindi l’ascolto. Enrico Casagrande ha aperto un discorso sullo spazio pubblico, su un’istanza di realtà, con un’esplosione controllata del festival che ha previsto il coinvolgimento dello spettatore e una riflessione sulla possibilità della rivolta oggi. Ermanna Montanari ha spostato l’attenzione sull’attore, consegnando le chiavi per aprire la porta principale di un teatro abitato da solitudini e comunanze, da poeti sulle torri e musicanti fra la folla. A ben vedere, ogni annata ha messo al centro almeno una domanda forte, presentando il festival come concreta approssimazione alle risposte: nel teatro, possiamo consegnare al suono la responsabilità di una visione? Riesce, il teatro, a vedere la realtà, e a esserne attraversato? Infine: la parola attore è la porta di ingresso del teatro? La possibilità di una risposta negativa non dovrebbe misurare il fallimento di un’idea, semmai una sua discussione, una critica e quindi una crescita.
Il lavoro dell’osservatorio critico è certamente quello di dare un valore all’epifania della visione, mettendo alla prova insieme agli spettatori la connessione delle opere con l’immagine artistica, individuando le domande pubbliche seguite dai direttori nella costruzione e forse cercandone di inaspettate. È un lavoro di compresenza che si è trovato a confermare una porzione considerevole della visioni, ma anche a discutere quello che è rimasto irrisolto. Forse in questo triennio si è trovata una chiave nella strutturazione dell’irrisolto, a vantaggio non solo dell’opera singola, non solo dell’opera-festival ma del Teatro stesso, quello che si cerca quotidianamente. Dentro a un festival come questo certi processi accelerano: si parla di opere ma si guarda all’arte, quindi alla società. Questo è il “valore aggiunto” di Santarcangelo 09/11: un luogo in cui il teatro ha sempre guardato fuori, ha tentato di connettersi a un’idea di quotidianità da rifondare, attraverso la pubblica arena della scena; se c’è stato un progetto oltre le visioni dei singoli artisti, qui ha trovato la possibilità di respirare.
La qualità dell’aria
Tre anni, tre direttori, tre “coordinatori” ma un progetto comune: quello a cui abbiamo assistito non è stato una fusione, ma un percorso dai precisi confini interni. Prima di tutto c’è l’artista, a cui si chiede la responsabilità di una scelta che sia in corrispondenza con una poetica. Santarcangelo 39/41 è stato il disegno di un festival come un’unica opera, o almeno la richiesta di attraversarlo come se lo fosse. In questo si è trattato di qualcosa di poco visto, almeno nel panorama della ricerca teatrale italiana degli ultimi anni. Non si è mai trattato di prendere solo opere di qualità, ma di cercare lavori che stessero dentro a un discorso sul teatro. In seconda battuta abbiamo visto la capacità di queste visioni di concretizzarsi in fatti teatrali, grazie all’azione del coordinamento, che ha saputo dubitare, approfondire, aprire le idee degli artisti. Si è trattato di un lavoro interno, al servizio di tre idee di teatro, ma senza il quale quelle idee non avrebbero avuto un sostegno di senso per trasmettersi di anno in anno.
Come Osservatorio abbiamo tentato di tracciare il percorso, stando sui fatti, e ora ci sembra importante discutere del futuro alla luce di ciò che abbiamo visto. Ripercorrendo le analisi e i ragionamenti degli anni passati ci domandiamo come si possa garantire uno spazio di libertà, di indeterminatezza nella griglia di un festival, quella necessaria a far muovere le idee.
Non è difficile da formulare, più complesso sarà individuarne una concretezza progettuale: è necessario preservare una definizione che non deve comprendere tutto, dando voce a uno spazio di ragionamento critico. Come si preserva uno spazio di navigazione in zone franche, in spazi non controllati eppure guidati da una rotta? È necessario provare a comporre le diversità, facendo leva sull’autonomia dei soggetti che prenderanno il timone, scommettendo sul valore aggiunto dell’incontro. Questa idea si è manifestata nel lavoro del coordinamento, nella tessitura, nel passaggio da una visione di teatro all’altra: se il progetto triennale ha mantenuto una sua innegabile coerenza, questo è dovuto al trasmettersi delle tre differenti visioni nelle mani, nei pensieri, nei desideri del coordinamento. Un “passaggio di consegne”: quando un’idea prende forma si trasmette, e quando si trasmette si modifica. Bottiroli, Sacchettini, Ventrucci hanno accolto le tre idee, le hanno discusse e modificate. Le hanno connesse fra loro, oltre i confini delle visioni degli artisti.
Pensare plurale
Non si può quindi ignorare il dato davvero “nuovo” di questo triennio: la nascita di tre figure chiamate ad ascoltare le ragioni dell’arte e di ciò che arte non è. Tre figure che sono state chiamate a creare un contesto in cui l’arte stesse al centro sia di una riflessione teorica che di una fruizione pratica. Dopo tre anni il contesto si vede e si sente. Per questo non è possibile immaginare un Santarcangelo 42 che faccia a meno di queste tre persone: tornare alla purezza delle idee - che siano di singoli operatori o di singoli artisti - sarebbe come tornare al problema Santarcangelo, perché le idee, se lasciate sole, sono tutte sostituibili, o non riescono a fare rumore nel flusso melmoso dello spettacolo odierno. Mentre di contesti se ne trovano ormai pochissimi. Chiaramente il coordinamento dovrà farsi carico della responsabilità delle idee, curandole in autonomia come non ha mai fatto fino ad ora o facendosi affiancare dagli artisti attraverso una formula nuova, che non replichi ciò che è stato. Ma su questo, dato il silenzio che appare programmatico, ha forse poco senso fare previsioni.
Se questa è la fine del triennio dobbiamo dire che allora è anche la fine dell’Osservatorio Critico.
Siamo partiti con parole di protesta, agganciate all’arte. Abbiamo attraversato tre anni incontrando le visioni, cercando connessioni: un tentativo di ragionamento, condiviso da quindici persone dalle formazioni differenti. Ci siamo radunati a Santarcangelo in cerca di aria da respirare, e l’abbiamo trovata. Se siamo riusciti a alimentare una “funzione critica”, almeno qui al festival, non sta però a noi dirlo: ci basta sottolineare che qualsiasi piega prenderà il futuro, sarà necessario preservare quell’apertura, quel pensare plurale che è condizione necessaria per qualsiasi idea di critica, e di arte.
Osservatorio critico 09/11