EDITORIALI > Fuori di se', l'arte dello sfinimento
«Non si può essere autori di un’opera d’arte, si è capolavoro», diceva Carmelo Bene e mai come adesso, alla fine di questo festival, ci appare chiaro quanto questa visione sia in grado di aderire alla realtà della scena e dei suoi abitanti.
Santarcangelo 41 ci ha chiamato a fare cerchio intorno a qualcosa che è “senza perimetro”, una parola che va oltre la parola, un “attore” che non è (solo) corpo e/o voce in scena, ma continuamente ne fuoriesce come esposizione e generosità senza luogo. Ci ha invitato ad attraversare questo passaggio, a sceglierlo ancora una volta – e di più – come nodo da cui partono tutte le riflessioni.
Osservare gli attori è mestiere difficile, forse tanto quanto esserlo. Occorre oscillare, stare e non stare, avvicinarsi e allontanarsi, abbandonarsi al gioco e mantenersi costantemente vigili. Questi giorni sono stati l’occasione per fare esercizio intensivo di sguardo mobile. Quando si incontrano tante opere in un tempo condensato come quello di un festival, al vago disagio che ci dà la quantità “tossica” delle visioni si associa il sentimento costante di perdita per l’impossibilità di addentrarsi negli angoli di ogni cosa. Si sta all’incrocio di tensioni contrarie, ma che ci possono portare in quella dimensione di “spaesamento” tanto cara a Marco Martinelli quando parla del suo lavoro con la moltitudine adolescente di Eresia della Felicità: qualcosa che ci trasporta in un altro paese, in un altrove dove diventa possibile avere occhi e orecchie nuovi.
In questi giorni abbiamo visto tanti attori, li abbiamo guardati, ascoltati a lungo. Ci siamo interrogati sul loro modo di stare in scena, sull’incertezza di parole che possano definire, raccontare e spiegare quello che lì accade. Perdere il proprio “paese”, sradicarsi e spostarsi, in questo caso ha significato anche, per un attimo, prendere le distanze dai libri e dalle pratiche: provare a guardare da lontano il panorama intorno a noi, senza mai comprenderlo e abbracciarlo del tutto.
In questi giorni abbiamo visto tanti attori sfinirsi nei modi più diversi, uscire da se stessi per entrare nel teatro. Oltre le storie e le identità degli individui, è emerso qualcosa che ci pare attraversare l’“oggetto” attore, questa possibilità tendenzialmente infinita di poter essere “capolavoro”, “opera d’arte”, cosa tra le cose della scena, più reale della realtà stessa.
Sfiniti sono (da una parte) Marco Cavalcoli e (dall’altra) Chiara Lagani in T.E.L., dove l’attore è segno di mancanza, traccia visibile che rimanda a un Termine Eternamente Lontano, mentre il dispositivo dell’eterodirezione, stringendolo in una partitura gestuale imposta e serrata, modifica il livello della sua presenza, tanto più forte quanto più separata dalla volontà delle azioni compiute.
Si sfinisce Silvia Calderoni che inscena e “si provoca” ripetutamente, - dichiarandone la finzione rappresentativa, ma portandola fino al limite della resistenza - un male “politico” violento e devastante in The Plot Is the Revolution di Motus.
Sfiniti gli attori di Oriza Hirata in Tokyo Notes, dove solo le parole pronunciate disegnano lo spazio fragile delle relazioni e la quotidianità del contesto rappresentato si dilata fino allo svuotamento. Lo “spreco” professato da Ivo Dimchev sfinisce e lacera il corpo della performance in Som Faves, esautorando nella ripetizione ossessiva e ostinata qualsiasi riferimento alla proprio biografia, giungendo all’apertura di una vera ferita del corpo d’attore, che mostra il sangue sulla scena come aderenza perfetta di forma e contenuto.
E ancora: il Rire di Antonia Baehr, l’inseguimento dei limiti della menzogna di Menoventi in Il contratto e in Perdere la faccia, la sopravvivenza del naufrago di Roberto Latini in Noosfera Titanic. A guardarli sotto quest’ottica, la sensazione è quella di essere sull’orlo di un precipizio, di rischiare la caduta dopo l’estrema tensione. Se attore è, come scrive Ermanna Montanari all’inizio del festival, una figura-baratro, sembra disegnare con la sua presenza sotto i nostri occhi i contorni di questo buco. «Rompete le righe», ripete Latini all’inizio dello spettacolo, mentre gli spettatori restano irrimediabilmente immobili di fronte a lui. «Rompete le righe» è una possibilità di fuga, il desiderio di una dispersione. Tutti gli artisti presenti al festival hanno portato con sé, in qualche modo, questo slancio. Non tutti si sono gettati per raggiungere un nuovo “paese”. Qualcuno è caduto giù. Rompere le righe può voler dire scrivere una poesia, andare a capo ricominciando ogni volta la propria rivoluzione, ma c’è il rischio di imparare a spezzarle sempre nello stesso punto, dove è più semplice farle cedere, più semplice non rischiare.