Quando si parla di danza bisognerebbe sempre declinarla al plurale, tante sono le sue forme e le sue proposizioni. E così bisognerebbe fare quando ci si domanda che tipo di spettatore la danza presupponga, visto che ogni suo darsi è sempre un consegnarsi a uno sguardo altrui. Alcune proposte sono facili, si tratta di sedurre un pubblico e di lasciarsi consumare dallo sguardo. Altre invece attivano un’empatia che niente ha a che fare con il consumo, ma più con il racconto e il riconoscimento di sé.
I progetti realizzati da Sieni con i non professionisti mostrano come alcune storie, alcune identità, se guidati dalla visione dell’artista, possono diventare significanti e intercettare la propria esperienza, quasi a sussurrare che quella bellezza che si vede in scena parla a noi, ma anche di noi, perché va così potentemente a toccare la radice dell’umano. E questa trasfigurazione poetica della vita e della memoria è quanto di più lontano dal protagonismo narcisista di questo tempo.
Altre esperienze sgretolano la griglia dei ruoli e insistono sulla ridefinizione del potere dello spettatore. Lo spettatore può essere messo nella condizione di produrre il significato dell’opera e non semplicemente riconoscerlo secondo paradigmi già percorsi, come si prefigge Spångberg che pensa all’arte non come a una relazione che confermi le identità ma che forzi a crearne di nuove. Se un corpo in movimento è un corpo rapace, prensile, che afferra e trasforma, che crea lo spazio e centrifuga i punti di vista, come quello degli MK, che corpo è il corpo di chi guarda? Sta in questo la scommessa che la danza lancia allo spettatore: gli chiede di “lasciarsi spostare” e assumere il punto di vista dell’altro, e poi di cambiarlo nuovamente, di tornare in un posto diverso da quello da cui è partito semplicemente perché si è lasciato attraversare. La danza è esperienza del mondo, e ciò significa che è esperienza dell’altro. Oggi le proposte del Festival invitano gli spettatori a diventare questo altro, e a lasciarsi danzare.