Il teatro non ha aspettato il bel pamphlet di Walter Siti per sapere che il realismo è l’impossibile. Nella sua grammatica mimetica tutto è sempre al posto di qualcosa d’altro: l’attore al posto della persona, la scena al posto del mondo, il pubblico in rappresentanza della società. Sciolta dal suo patto di credibilità, l’illusione teatrale appare presto per quello che è: un artigianale montaggio di attrazioni non sempre in grado di nascondere i propri trucchi, le proprie finzioni. Ma poiché la flagranza del reale è l’elemento più animoso di questo inganno in cui i corpi si trasformano, la sua suggestione ha sempre sfidato la realtà che attendeva fuori di scena: nel 1812, in un teatro di Baltimora, un soldato di guardia all’ingresso spara all'attore che in scena interpreta Otello urlando che in sua presenza «nessun negro potrà mai impunemente uccidere una donna bianca»: al culmine di un’allucinazione che confonde il segno con la realtà spara al personaggio (e colpisce l’attore). Negli anni sessanta le autorità italiane decidono di impedire la messa in scena del Vicario di Rolf Hochhuth, una pièce dove sono in gioco le responsabilità di Pio XII rispetto alla Shoah. Nel 1968 le autorità comuniste polacche vietano la rappresentazione al Gran Teatro di Varsavia de Gli Avi di Adam Mickiewicz (un poema drammatico del 1833...) ed è la scintilla di una rivolta studentesca che anticipa di quattro mesi il maggio francese. Nel 2011, gruppi di fondamentalisti cattolici cercano di boicottare, in Italia e in Francia, lo spettacolo di Romeo Castellluci Sul Concetto di Volto nel figlio di Dio. In tutti questi casi, pur molto diversi tra loro, il potere o i suoi rappresentanti intervengono fisicamente sulla rappresentazione, come se si dovesse impedire un delitto che sta per essere compiuto. Cosa c’è di insopportabile sulla scena? Semplicemente il fatto che il teatro accada nel presente, con un'azione reale, anche se non sempre realistica (o di un realismo appena significato: l’attore che a Baltimora fa Otello è un bianco con la faccia tinta di nero). Di questa tensione dialettica, agonica, drammatica con la realtà, la meno realistica delle arti mimetiche non può fare a meno. C’è una dualità tra il segno e la realtà e il teatro rappresenta il suo conflitto irrisolto. Anche nel momento in cui le simulazioni mediatiche sembrano fagocitare la realtà e risolverla in spettacolo, anche quando la realtà stessa viene presentata come un grande spettacolo, la scena reagisce offrendo un'inaspettata riserva di senso agli eccessi, alle rimozioni, agli scarti prodotti da questo processo di estetizzazione della vita. Dice che ci sono dei corpi dove il mondo non vede altro che immagini. Afferma che ci sono ancora dei segni dove la percezione corrente vede solo nude vite, corpi abietti. Ritrova l'espressività della parola, la sua carne, dove la società di massa afferma che nella parola c’è solo informazione e comunicazione. E si trasforma nel frugale tribunale della contemporaneità. Ma più che decretare giudizi finali, in questo tribunale si fanno risuonare contraddizioni altrimenti inudibili. Ci sono discorsi che soltanto la scena contemporanea sembra in grado di permettersi: quello, a un tempo brutale e poetico, sull’addomesticamento della morte in The End di Babilonia Teatri, ad esempio, o quello “grigio” con cui il gruppo Fanny & Alexander ha fatto affiorare l’agghiacciante rumore bianco della politica (non solo) italiana. Li ritroverete, forse domani, in qualche film. E nessuno, pochi sapranno da dove vengono. Ma non importa. Il teatro anticipa, la realtà che il realismo dei media si affanna ad inseguire.
Attilio Scarpellini*
*Saggista, giornalista e critico. Direttore dei "Quaderni del Teatro di Roma", fondatore di "Lettera 22", collabora con Radio Rai Tre.