Nella profondità della grotta municipale ci attende un uomo disteso su un divano. È nudo, indossa una corona dorata ed è ricoperto di un’elevata quantità di miele che straripa dai cuscini. Si strofina le mani e si guarda intorno impaurito. Osserviamo questa visione inquieti, sia per il disagio affiorante da questo corpo che per la fredda cornice che lo ospita. Il miele esalta i muscoli dell’uomo, ma la sua voce è flebile e intimidita. È un re o una regina androgina? Una figura mitologica o un essere bionico? Lo scopriamo non appena si riesce ad alzare in piedi sul divano, staccandosi da quel miele che lo incolla alla seduta anziché addolcirne la permanenza, e mostrandoci la sua virilità prima di stendersi di nuovo.
I suoi movimenti rimangono indecisi e trattenuti, e la sua voce recita un cut up di filastrocche, rime, titoli di film e luoghi comuni intervallati da frasi dirette a noi venti spettatori che siamo continuamente guardati dai suoi occhi sbarrati. Un testo a flusso libero, ma non privo di significati: a tratti emergono frasi pungenti sulla morte che chiamano direttamente in causa il pubblico, e l’accurato lavoro del performer sulla sua voce bassa e stridula è essenziale per trasmettere i sentimenti di angoscia interiore che stanno dietro a quelle parole apparentemente casuali. Il fatto che siano pronunciate in inglese e in francese ci aiuta a coglierne l’emotività senza concentrarsi sul significato, e il luogo in cui la performance si svolge – un piccolo e freddo antro raggiunto dopo avere percorso un basso corridoio in discesa – amplifica l’atmosfera di raccoglimento e la dimensione intima evocata da The Honey Queen di Gertjan Van Gennip.
[The Honey Queen, Gertjan Van Gennip - ph Ilaria Scarpa]
I movimenti dell’uomo continuano per circa venti minuti, con i cigolii del divano di pelle e lo sgocciolamento del miele che riempiono i silenzi della sua voce. Uno struggimento che riesce a legarci alla sua stessa irrequietudine finché, di nuovo, il re nudo non si rialza per tentare, due volte, il gesto cardine dell’intera performance: l’evacuazione di un uovo dorato, che esce dal suo retto e viene raccolto in mano per essere mostrato al pubblico. Nella simbolicità di questa sorpresa sta forse la chiave di lettura dello spettacolo: il mondo dorato rappresentato dal miele, dalla corona e ora dall’uovo è un fallimento, se si è consapevoli che «se le api scomparissero dalla Terra, all’uomo resterebbero quattro anni di vita», come afferma la celebre frase di Einstein fulcro di questa performance. L’angoscia verso la morte non permette di alzarsi e agire, ma fa rimanere incollati alle proprie intime riflessioni, a salvaguardare la vita che è quel divano di miele. E così, quando al termine il re ci congeda, è difficile abbandonarlo senza sentirci egoisti per essere fuggiti dal suo disagio.
Usciti da questo lavoro dalla simbologia tanto essenziale quanto ricca di significati, resta il tremore per essersi affacciati sull’abisso interiore che Van Gennip è riuscito a mostrarci con questa visita alla sua stanza, con questo uovo espulso dal suo intestino, dove si raccolgono le paure che non siamo mai disposti a manifestare.