Non c'è ingresso, non c'è sala teatrale. Solo un appuntamento, in una delle piazze del paese. Lungo l'area di raccolta qualcuno chiede e qualcuno dà informazioni, ma se si osserva bene c'è un cartello appoggiato a una parete, dove sono scritti un numero di telefono e un codice d'accesso. Scatta l'ora stabilita e parte la chiamata; una volta inserito il codice, appare una voce.
È concessa mezz'ora di ascolto. La tariffa varia in base al tuo piano telefonico. Ecco svelato il prezzo del biglietto. Ma lo spettacolo, dov'è?
La voce nel cellulare è una voce di donna, tesa, nervosa. Racconta uno spaesamento, il suo aggirarsi in un luogo che descrive appena. “Sarà questo il posto giusto?”. A questa frase sorge spontaneo l'istinto di guardarsi attorno, verificare se anche noi, al telefono, siamo nel punto giusto per assistere.
Vedere. Vogliamo vedere. Vogliamo scovare la fonte, l'attrice a figura intera, associare la voce a un volto.
Chi prima, chi dopo, ma non si può non incontrare l'interprete, che si lascia riconoscere senza mascherare il microfono ad archetto appoggiato sulla guancia. Si lascia distinguere per il suo tono di voce, palesemente interlocutorio e alto, più alto di un tono rispetto alla folla, più interlocutorio di un monologante borderline in cerca di appigli.
[Foto Lele Marcojanni]
Con due borsette penzoloni e una giacca troppo grande, Daria Deflorian si muove nervosa, si sposta da un punto all'altro della piazza, compone un tragitto di soste e fughe, di domande e pensieri. In quel corpo troppo solo sono raggrumate riflessioni che non possono più stare chiuse. E le parole ci arrivano all'orecchio, ma fuoriescono dalle mani dell'attrice, dai suoi occhi sbarrati, dai suoi capelli raccolti che si scompongono un passo dopo l'altro. Il testo è uno strato di testi: la voce della piazza indifferente, che procede dritta verso altre destinazioni predefinite; il corpo della piazza partecipante, che trattiene il telefono all'orecchio e insegue la Deflorian; isole di pubblico che ascoltano e guardano la donna senza capire perchè, attorno a loro, sono tutti impegnati in chissà quale conversazione telefonica; i nervi dell'attrice che esplodono, che disegnano i colori di un monologo cupo, nostalgico, eccessivamente introspettivo per quello spazio deliberatamente pubblico.
Da un contrasto all'altro, ciò che si compone di fronte a chi guarda è uno scenario fuori controllo, in parte autogestito, in parte direzionato da una grande energia. Viene voglia di scegliere uno spettatore come noi e scrutarlo, studiare le sue reazioni. Viene voglia di inseguire l'attrice, costruirle una scatola nera attorno e godere di ogni dettaglio interpretativo. Viene voglia di guardarsi dentro, di sentire il proprio corpo che esplora la piazza, che non sa scegliere se restare da solo o se far parte di quello sciame di individui.
[Foto Lele Marcojanni]
Agoraphobia è un insieme di domande. Da una parte la relazione teatrale, che qui si sbriciola e si condensa a intermittenza: allo spettatore sono offerte numerose possibilità di sguardo, e l'attrice ha a disposizione più strade di incontro. È ciascun partecipante a scegliere come guardare ciò che accade, se in forma di audiodramma, rimanendo fermo col telefono all'orecchio, guardando i propri piedi o il paesaggio che gli scorre attorno, tra macchine che parcheggiano, famiglie che camminano, vecchi che appoggiano il proprio bastone sulla strada e procedono verso una gelateria. Oppure si può cercare lo spettacolo, tentare ogni minuto di ricostruire la consueta frontalità: vedere e ascoltare e analizzare, accettando la sola difficoltà di muoversi di continuo. Si può cercare il lavoro dell'attore, in questo caso di un'attrice integerrima, fortissima, radicale nel suo sfuocato personaggio e impeccabile nel suo essere dentro di sé e nella capacità connaturata di trasfigurare continuamente il contesto.
E le domande di Lotte Van Den Berg vanno anche altrove, ma non troppo lontano da dove siamo. Il teatro è un luogo, e forse ogni luogo può farsi teatro. L'architettura è un gioco di relazioni, il pubblico e l'attore due poli energetici. La consapevolezza dello spettatore è una scelta, e le dinamiche di una piazza offrono la possibilità di sperimentare il significato della parola “incontro”, “scontro”, “casualità”, “ricercatezza”. Ci sono appigli antropologici, specchi comportamentali che si illuminano, emerge una riflessione sulla capacità del singolo di sapersi concentrare, di saper individuare “che cosa” seguire e “come” farlo.
Le domande di Agoraphobia sono domande artistiche date in mano allo spettatore. La partecipazione è scissa in movimento, un moto corporeo costante, e in riflessione dinamica e diretta. Non è forse così importante interrogarsi sulla natura mobile di questo teatro della partecipazione, ed è invece più avventuroso discutere la brillantezza poetica di un gioco di sguardi e di ascolti, dove i livelli si intersecano fino a creare non un'opera, non un esperimento relazionale ma più punti di osservazione. Quale o quali attraversare, sta ai nostri passi e alle nostre orecchie, senza dimenticare di guardare sempre dentro e fuori, proprio come un'attrice.