Valentina Valentini insegna Arti performative e Arti Elettroniche e digitali presso La Sapienza di Roma. Da anni porta avanti lo studio sulla dimensione sonora del teatro attraverso gruppi di ricerca, eventi e pubblicazioni. Uno dei suoi progetti riguarda la voce femminile, per il quale ha realizzato un archivio sonoro che ha avuto alcuni esiti performativi.
Com’è nato il progetto “La dimora delle voci femminili”?
La vocalità femminile è un filone della più ampia ricerca sul suono, ma non è assolutizzante; è piuttosto legato all’idea che la vocalità delle donne abbia un potere particolare, un richiamo che si imprime in modo più potente. Quindi, più o meno consciamente, al di là delle ideologie, si è attratti dalla voce femminile. Per “La dimora delle voci femminili” ho raccolto un repertorio di registrazioni sia contemporanee sia provenienti da materiali d’archivio: tra le altre, le voci di Iaia Forte, di Perla Peragallo nel Don Chisciotte di Carmelo Bene e nel film fatto insieme a Leo de Berardinis, A Charlie Parker, l’alfabeto di Chiara Guidi, la voce di Gabriella Rusticali, di Mariangela Gualtieri, di Ermanna Montanari. In un’altra occasione (per "Performing Female Voices", al Festival Istantanee del Kollatino Underground) accanto a me c’era Mauro Petruzziello, che aveva invece composto un mixage di voci di cantanti donne. Era un tentativo, in forma di dj-set, di costruire un gioco, una drammaturgia interna nell’alternanza delle voci.
Io mi occupo del teatro del Novecento e di arti elettroniche e digitali. In entrambi questi ambiti teorici la dimensione sonora è molto importante: ne costituisce spesso la drammaturgia, il dispositivo dominante. Da un po’ di anni dirigo i miei interessi verso il ruolo del suono sulla scena, verso l’immagine sonora. Il gruppo “Acusma”, composto da miei studenti e dottorandi, tenta di portare avanti questa ricerca attraverso studi sulla vocalità, sul registro sonoro, sulle opere liriche. Il progetto sulle voci femminili, infatti, è derivato da un percorso più ampio nell’ambito di PRIN [Programmi di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale, ndr.], legato all’Università e finanziato dal MIUR, con lo scopo di creare un archivio sonoro: un luogo fisico che raccogliesse materiali audio teatrali. Così è nato un percorso sperimentale di ricerca, finalizzato alla raccolta e catalogazione dei materiali. Il finanziamento non è stato poi portato avanti e, da quel punto di vista, il progetto è crollato; ma l’intenzione investigativa continua a sussistere, sia attraverso tesi di laurea (ne sto seguendo alcune di studenti e dottorandi, sul registro sonoro della Tragedia Endogonidia e sull’Amleto della Socìetas Raffello Sanzio, ad esempio) sia all’interno di convegni, incontri, eventi sul tema.
Quali sono le attività di “Acusma” e come sta portando avanti la ricerca sul suono a teatro?
Il nostro è un piccolo gruppo che comincia, però, ad avere alleati interessanti: da Carlo Serra a Enrico Pitozzi. A breve sarà pronto un sito volto a raccogliere le esperienze di ricerca e le riflessioni che stiamo portando avanti. A novembre, inoltre, uscirà Drammaturgie sonore, un volume collettivo dedicato al suono e alla voce nel teatro. Lavorando al sito cercheremo di coinvolgere chi produce teatro per incrementare l’attenzione verso il registro sonoro dello spettacolo. Per il Teatro Furio Camillo di Roma sto preparando una serie di incontri, lezioni e spettacoli sulla vocalità. In questo modo il progetto continua nella misura in cui proseguono le nostre investigazioni. Tento di non disgiungere mai il mio lavoro di ricerca dalla scrittura e dall’operatività, dall’azione. Se si studia la voce si ha bisogno di un archivio sonoro e per animarlo occorre promuovere questi percorsi con libri, incontri, eventi aperti al pubblico: tutto questo non è mai disgiunto dalla ricerca. Per tre anni, a Roma, ho coordinato un laboratorio di drammaturgia sonora dove ho invitato studiosi come Lucia Amara, che ha parlato di Artaud, o Carlo Serra, che ha presentato La voce e lo spazio, un saggio in cui fenomeno acustico anche alla luce delle ricerche antropologiche e del cosiddetto paesaggio sonoro.
Se il teatro è letteralmente il “luogo della visione”, molti maestri della scena hanno parlato di ascolto come dimensione privilegiata dell’evento teatrale. Qual è secondo la sua esperienza l’approccio auspicabile verso lo spazio sonoro del teatro?
Un’idea di questo tipo è stata concretizzata in modo estremo da Riccardo Caporossi nel suo recente spettacolo Colpo su colpo, in cui ha bendato gli spettatori e li ha messi ad “ascoltare” la scena, svelando la vista solo alla fine dello spettacolo. Per parecchio tempo, nella storia del teatro, la dimensione acustica è stata rimossa a favore della visione, ma fortunatamente in questo momento ci troviamo in una situazione orale accentuata. La sonorità è effimera e nonostante questo, proprio per la sua evanescenza e inafferrabilità, occorre creare gli strumenti per poterla studiare. Si pensa spesso che sia qualcosa che ci può solo affascinare, ma che preclude l’analisi. Certamente il fascino ha una forte componente, ma possiamo essere attratti dalla voce come da un gesto, un corpo, un colore. Penso che sia venuto il momento di concentrare gli studi e le energie sull’aspetto sonoro, farlo scientificamente. Occorre studiare questi fenomeni, poiché senza uno studio approfondito molte ricerche artistiche non possono essere comprese.