Cominciamo da Elfriede Jelinek, a cui l'intero Festival è dedicato. Perché proprio questa autrice? Che valore può avere discutere tanto diffusamente, e con tante competenze che si sommano, di questa personalità?
Spesso ho associato a Elfriede Jelinek il tratto della “inesorabilità”. Autrice sulla punta di un baratro, di un precipizio. Perché lei con inesorabile implacabilità si espone. E lo fa attraverso la sua scrittura, a cui è appeso un linguaggio ardente e coraggioso. «Il labbro mi sanguinava di linguaggio» dice Paul Celan. A questo labbro, a queste scritture che lei ci consegna, sono appese tante questioni, tra cui il linguaggio e le sue ferite, la realtà e le rappresentazioni, la natura del potere, come tanti "ami".
Da Winterreise, un testo del 2011 tradotto da Roberta Cortese, ho raccolto un’immagine che dipinge l’inesorabilità: in piedi su una lastra di ghiaccio con le «umane suole leggere» destinate a scaldare e sciogliere il ghiaccio su cui poggia. L'autrice è dunque destinata a precipitare, a cadere giù, nell'acqua ghiacciata. Ed è una frana che lei stessa ha provocato. Questa “inesorabilità” è il ruolo stesso della sua scrittura, l'unica condizione possibile. E mentre lei precipita, facciamo lo stesso anche noi leggendola. Il tempo di immersione nelle sue scritture ha restituito un luogo difficile dove stare, come un pozzo pieno di spine, una discesa che lei propone, verso un luogo che continuamente punge.
Elfriede Jelinek è un’autrice molto amata da alcuni artisti, una zona d'amore coltivata anche nel silenzio per anni. Il Focus Jelinek ha dato una possibilità di concretezza a questo amore, facendo convergere impegni e nuovi progetti produttivi. L’idea di dedicare a Elfriede Jelinek un progetto specifico è partita dalla convergenza e dal confronto con alcuni artisti, in particolare Angela Malfitano, che aveva lavorato negli scorsi anni su La regina degli elfi, e Andrea Adriatico che da molti anni conosce e ammira con forza questa autrice. Nel 2002, in un festival che cocuravo, venne a Bologna la compagnia Quelli che restano che portava in scena L’addio di Elfriede Jelinek. Da lettrice la conosco da quel momento: lì si è accesa la mia personale miccia per questa autrice per poi concretizzarsi nel confronto con le compagnie e lì è partita un’immersione che ha portato alla creazione della forma speciale di questo progetto.
Come hai scelto gli artisti del Festival Focus Jelinek e come si è svolto il rapporto di committenza dell'opera?
Tutto è partito dall'idea di creare un luogo dove poter ospitare le scritture di Elfriede Jelinek. Nel periodo di lettura e ricerca, nei dialoghi e nei confronti avuti con artisti, alcuni traduttori e studiosi della Jelinek e con la Jelinek stessa, a un certo punto, ho letto i suoi testi con l'orecchio. Ho cominciato – ed è così che sto operando in questi anni – a leggere i testi cercando le voci che potessero condividere quei testi con il pubblico, ed era importante sin dall'inizio che ci fosse una pluralità di visioni. Si è rafforzato il processo di condivisione con gli artisti che conoscevano la Jelinek e il Focus ha rappresentato l'occasione per approfondire e condividere il progetto produttivo, e per altri è stato un viaggio, generoso, complesso e articolato, alla scoperta di un'autrice e della sua scrittura. Più che un rapporto di committenza si è trattato della creazione di condivisione.
Alla mappa dgli artisti se ne sovrappone una geografica, che incrocia più teatri di quattordici città dell'Emilia-Romagna. Come hai costruito questa parte del lavoro?
Le due mappe in effetti coincidono. A monte c'è proprio la ricerca di un progetto che fosse anche un luogo in cui poter accogliere le scritture della Jelinek. È stato come se i tanti fogli, testi, volumi... come se tutta la sua produzione fosse a un certo punto diventata trasparente, come una carta velina condotta da un soffio che si adagiava sopra una città. E quest'immagine per me è quella che poi ha trovato una forma di applicazione e di concretezza nella costruzione dell'intero progetto, con le tante scritture che si diramano nella regione, in direzioni diverse, creando l’idea di una città allargata.
L'idea di festival per città lavora con l’obiettivo di connettere la produzione e la programmazione, guardando i pubblici e facendo collaborare festival, teatri, biblioteche storiche, cinema, luoghi culturali di una regione, l’Emilia-Romagna. La specialità delle condivisioni in questo disegno nuovo e inedito nella progettazione culturale racchiude per me un ideale molto forte di come penso sia necessario e importante lavorare, nel teatro, nelle città e nell’innovazione culturale.
Il festival è presentato attraverso un'opera di Claudio Parmiggiani. In che modo il suo segno si aggiunge a quello della Jelinek?
La potenza dell'opera di Claudio Parmiggiani fa parte di un mio personale “spazio dell'ammirazione” da tempo. In una intervista Parmiggiani dice «Siamo stranieri e straniera è sempre più la nostra lingua. Lingua assediata, sospinta via via nelle riserve […] lingua che è trincea, voce resistente, lingua orgogliosa, che non si arrende e che si oppone». Nell’opera che è diventata l’immagine del progetto c'è un livello immaginifico e assonante con l’opera di Elfriede Jelinek: la ferita, la frattura del linguaggio, un viso bendato, caduto verso di noi, come un tonfo verso la scrittura di Elfriede Jelinek. Sono quattro le immagini di Claudio Parmiggiani che attraversano il progetto. Ci sono poi disseminate in questo Festival altre immagini invisibili, quelle che ci restituisce Elfriede Jelinek, per esempio quella con cui l'autrice apre il discorso di In disparte: «È talmente spettinata la realtà. Non c’è pettine che riesca a lisciarla. I poeti vi passano e raccolgono disperatamente i suoi capelli in una pettinatura, dalla quale prontamente di notte vengono perseguitati. Nell’aspetto c’è qualcosa che non va».
Un altro andamento che è rimasto più nascosto è quello del dialogo con lei. C'è stato uno scambio di lettere che ha registrato il passaggio dal desiderio alla realtà, e in questo movimento lei è stata sempre vicina e ha trovato il modo di esserlo anche scrivendo appositamente il testo Ritornare! In Italia!
Ci hai raccontato come le visioni iniziali si concretizzano nella drammaturgia di un progetto. Questo festival però ha anche una durata e una dislocazione straordinarie che comportano una cura quotidiana...
Il Festival Focus Jelinek non sarebbe possibile se ogni tappa del progetto stesso non fosse organizzata, promossa, presa in carico dai teatri, dai festival, dalle strutture che lo ospitano. Quindi si tratta di uno staff allargato, come è allargata l'idea di città. Se così non fosse stato, non sarebbe stato minimamente pensabile organizzare sessanta appuntamenti, da ottobre a marzo. Considero poi un “davanti alle quinte”, più che un “dietro”, l'appoggio istituzionale e le tante attive collaborazioni dei soggetti che hanno creduto dall’inizio a questo progetto e degli artisti che sono i compagni di questo viaggio. Tutto è partito dal desiderio e dalla tenacia di voler realizzare questo percorso. La mia soddisfazione sta nel fatto che il pensiero iniziale si è realizzato nel suo ideale e si sa, gli ideali hanno misure straordinarie.