«È una certa ostilità alla vita che mi ha condotto al teatro […] Io non provo quel desiderio di produrre vita sulle scene che ha attirato quasi tutti gli scrittori. Voglio esattamente il contrario: produrre qualcosa senza vita. Al teatro voglio strappare la vita».
Elfriede Jelinek
Lunghi monologhi di figure che non hanno apparentemente nessuna relazione tra loro, in un ininterrotto flusso verbale che non si ferma neppure dinanzi ai confini imposti dai singoli personaggi e dal conseguente cambio delle battute, bruschi accostamenti di frasi idiomatiche, calembour e virtuosismi sintattici, citazioni dai classici della letteratura e riferimenti alla più trita quotidianità, mancanza di una vera e propria azione: il teatro di Elfriede Jelinek sembra oltrepassare per radicalismo espressivo tutto ciò che la drammaturgia del secondo Novecento ha pure offerto in termini di sperimentazione linguistica, dalla asimmetria dei dialoghi di Beckett alla riduzione monologica dei lavori di Thomas Bernhard. Protagonista assoluta è la sfera del logos, che impone la sua terribile forza su ogni altro elemento, si tratti dei requisiti scenici, dell'intreccio o della stessa identità delle dramatis personae. Sul palcoscenico non si rappresentano più accadimenti, situazioni, costellazioni psicologiche, azioni o personaggi. A esibirsi è solo il linguaggio, o meglio la langue nel senso di de Saussure, gli schemi espressivi storicamente e socialmente determinati, dai quali nessuno può prescindere, il grande calderone delle frasi fatte, delle formulazioni preordinate, degli stereotipi e dei luoghi comuni, le scorie verbali della tradizione letteraria e religiosa, i «miti d'oggi», nella loro articolazione idiomatica. Ma non c'è, in questa virtuosa girandola di parole e proposizioni, l'idea lacaniana di un inconscio linguistico che da sé produce effetti magici e stranianti, mostrando nel suo fondo il luccichio del vero e dell'assoluto. Al contrario la drammatizzazione del logos è svolta con intento critico. Se la nostra langue è il nostro mondo, se il nostro mondo è dunque fatto di parole, mondo e parole mentono. Il teatro non è rivelazione dell'autentico, ma disvelamento della menzogna.
Nel suo trasgredire apertamente le norme fondamentali del genere – illusione scenica, dialogicità, centralità dell'azione –, la drammaturgia di Elfriede Jelinek si pone ai limiti della rappresentabilità e costituisce per questo anche una sfida per ogni regista e uomo di teatro, accolta peraltro con coraggio e passione sulle scene di lingua tedesca, a riprova dell'intatta vitalità di questo mondo. Eppure l'arte della parola della Jelinek è intrinsecamente teatrale, nel senso che essa è in primo luogo un'arte del mostrare e del mettere in scena. L'autrice non interviene nella tessitura drammaturgica con interventi diretti che rivelino il suo punto di vista. Al contrario, la stessa posizione autoriale è ironicamente inserita nel gioco delle parti e sottoposta al processo di drammatizzazione. I lavori teatrali di Elfriede Jelinek vogliono mostrare il mondo (compresa la stessa posizione di chi scrive), ma non vogliono dimostrare nulla. Non c'è riflessione dei personaggi sui loro comportamenti, perché personaggi e comportamenti si danno solo come maschere linguistiche, prive di spessore e di capacità di giudizio. La riflessione è affidata al solo spettatore. Mostrare è già un atto critico.
Subordinando il ruolo dei personaggi al fluire incessante della langue, la Jelinek trasforma le sue figure in voci, sdoppiandole dal corpo esibito sulla scena. L'autrice porta così alle estreme conseguenze un'idea a lungo coltivata dal teatro austriaco del Novecento e che ha probabilmente il suo iniziatore in Karl Kraus.
Con gli anni ciò che rimaneva di intreccio tradizionale nel teatro dell'autrice si è andato progressivamente sfaldando, insieme ad ogni riferimento a Brecht. In qualche modo, anzi, la drammaturgia di Elfriede Jelinek rappresenta un'inversione di marcia rispetto al teatro epico, nell'eliminazione sistematica di ogni commento autoriale, a favore dell'autonomia dell'oggettivazione scenica. Costante è tuttavia rimasto il gioco di riferimenti intertestuali, il richiamo a figure della letteratura e della storia, la ripresa di elementi tratti dall'attualità politica.
In molti drammi la Jelinek ripropone il paradigma, centrale in tanta letteratura del Novecento, dell'antitesi tra arte e vita, che però assume una singolare declinazione. L'assoluto dell'arte, sottratto alle imperfezioni dell'esistenza, diviene una condizione di non-vita, di morte. Nella loro artificiosità, nel loro ripetere parole dette da altri, le figure di tutti i drammi della Jelinek sono figure che non hanno una vita reale. Le loro voci sono postume.
Certamente il teatro di Elfriede Jelinek resta, nella sua estrema provocazione, una sfida per tutti i destinatari coinvolti: registi, attori, traduttori e naturalmente lettori. Ma resta, in primo luogo, una sfida per i nostri tempi.
Luigi Reitani
Il presente saggio è apparso in forma più estesa nell’introduzione al volume Sport. Una pièce - Fa niente. Una piccola trilogia della morte (Ubulibri, 2005). Per gentile concessione dell'autore.