La morte o la fanciulla? di Fanny & Alexander è tratta dal ciclo La morte e la fanciulla di Elfriede Jelinek nell’episodio di Biancaneve e il cacciatore. Ne abbiamo parlato con Chiara Lagani, drammaturga, attrice e fondatrice della compagnia ravennate.
Nella genesi di La morte o la fanciulla?, qual è stato il rapporto tra Fanny & Alexander e il testo di Elfriede Jelinek?
Quando Elena di Gioia ci ha proposto di mettere in scena qualcosa a partire da La morte e la fanciulla, ci è sembrato che, tra tutte quelle della Jelinek, questa fosse un’opera interessante per noi. Siamo sempre stati legati all’immaginario delle favole e degli archetipi, e anche in questo caso affrontiamo un dialogo ispirato al personaggio di una favola, quella di Biancaneve. Non è semplice il rapporto con qualcosa di così caratterizzato e complesso come le opere di Elfriede Jelinek: sono testi durissimi, valanghe di parole scagliate su chi legge e spesso è difficile, anche per quelle concepite per il teatro, immaginare di pronunciarle su una scena. La struttura de La morte e la fanciulla, sebbene sia presentata sotto forma di dialogo, è in realtà una serie di lunghi monologhi in stretta e precaria relazione incubotica: si tratta di una forma profondamente antirealistica, antinaturalistica, antirappresentativa.
Come siete arrivati a definire la vostra performance?
Sin da subito ci siamo chiesti come poter affrontare La morte e la fanciulla: la sua tessitura linguistica pone delle questioni impegnative sulla forma, sul luogo e sul destinatario possibile di queste parole. Ci siamo soffermati sulla suggestione dell’autrice, che immagina due pupazzi che parlano doppiati da una voce fuori campo: inizialmente abbiamo proprio pensato al doppiaggio come forma possibile, riferendoci alla più classica e nota delle rappresentazioni su Biancaneve, quella di Disney, che essendo destinata al pubblico infantile, cozza contro il crudo tema della morte-non morte della fanciulla presente nella favola originale dei fratelli Grimm. Biancaneve rappresenta l’animo umano che ha bisogno di essere svegliato per tornare in vita, e che dopo avere attraversato il male e la tentazione, grazie all’incontro con l’altro, viene ridestato dalla morte. Ma la resa fiabesca di Disney rende conflittuale questa dura simbologia. La prima idea era dunque di realizzare un video isolando le scene di dialogo tra il principe e Biancaneve, con me e Marco Cavalcoli a doppiarle pronunciando il testo de La morte e la fanciulla. A poco a poco però nel pensiero si è fatta strada l’intuizione che il vero interlocutore di ognuno dei due protagonisti del dialogo di Jelinek (la morte o il cacciatore e la fanciulla) fosse anche lo spettatore, identificato di volta in volta nell’altro personaggio, quello in ascolto. Abbiamo dunque pensato a un lavoro che implicasse una percezione solitaria. In fondo La morte e la fanciulla parla anche e profondamente di un incontro con se stessi e con l’idea di una possibile fine, di un trapasso. Abbiamo perciò voluto isolare gli spettatori tenendo conto della questione sessuale, del genere, che nel testo ha un determinato rilievo. Nella nostra messa in scena, se lo spettatore è un uomo parlerà con la fanciulla, e se invece è una donna si confronterà con il cacciatore. Poiché l’unico luogo che implica una divisione così netta dei generi in un teatro è il bagno, sempre diviso per uomini e donne, e poiché il bagno è anche un luogo in cui risuonano echi e memorie dell’immaginario che abbiamo sulla Jelinek (si pensi solo ai bagni de La pianista) è lì che si realizzerà la nostra performance.
In questa tessitura, come si sviluppa la relazione tra performer e spettatore?
Inizialmente, non ancora abbandonata l’idea del video, intendevamo far comparire le immagini attraverso lo specchio del vestibolo, con un personaggio che rivolgeva al pubblico le parole scritte da Jelinek. Ma dato che La morte e la fanciulla è pieno di questioni sull’essere e il non essere, sull’apparenza e la scomparsa, abbiamo capito che non era necessario che in questo specchio ci fosse davvero la parvenza dell’altro. Abbiamo allora immaginato uno spettatore, assorto a guardare se stesso nello specchio di quel particolare bagno, interrogato all’improvviso da una voce che irrompe nella stanza: che meccanismo intimo, che questione tra le diverse parti del sé, o tra sé e l’altro invisibile nasceranno? I due attori parleranno nascosti, forse osservando lo spettatore che, pur avendo acquistato un biglietto e scelto di assistere al nostro lavoro, inizialmente non si soffermerà forse troppo sul dispositivo; all’improvviso sentirà una voce che gli si rivolge, a poco a poco sentirà che quella voce lo “vede”. Il dialogo, pur essenzializzato, conserverà la sua forza originaria e lo spettatore diventerà forse un sodale o l’alter ego della fanciulla e della morte…
La morte e la fanciulla è uno scontro tra maschile e femminile, tema cardine in Jelinek, che evoca non solo la prevaricazione dell’uomo ma anche l’incapacità della donna a opporvisi…
L’essenza del femminile – l’anima? – non risiede solo nella donna, ma può abitare anche nell’uomo. Stesso discorso per l’essenza del maschile – qui il cacciatore, o la morte – di cui partecipa anche la donna. All’apparenza sembra che ne La morte e la fanciulla vi sia uno scontro archetipico tra bene e male, ma in realtà in un archetipo così complesso non si rappresentano mai nettamente due parti antagoniste e opposte: maschile e femminile hanno sempre la possibilità di mescolarsi, di alternare la propria doppia natura. Maschile e femminile, che forse coesistono in ognuno di noi, è tema bifronte ricorrente dell’opera di Jelinek; non a caso, nella nostra performance lo spettatore si trova davanti a uno specchio: si allude al rapporto con se stessi. La morte è figura implicita in questo cimento: chissà se la metà che uccide è davvero quella assassina; o se è quella che muore a finire davvero. Ne La morte e la fanciulla il cacciatore certo non è il principe della favola originaria, con cui allo sciogliersi del sortilegio Biancaneve vive felice e contenta, ma pare implicato nel sortilegio, in ciò che può ucciderti e al contempo salvarti.
Durante un recente viaggio a Lisbona, mi sono trovata davanti a una meravigliosa serie di azulejos che rappresentano alcune favole di La Fontaine: una di queste ritrae un moribondo a cui viene a far visita la morte. L’uomo, per quanto infermo, protesta di non avere ricevuto giusto preavviso, ma la morte gli risponde che l’avviso è stato dato anzitempo e commenta: «È sempre il più restìo a morir chi alla Morte più somiglia». Ho ripensato a La morte e la fanciulla, dove il personaggio della Morte ha la sembianza di un cacciatore, e solo a un certo punto si scopre che è la Morte, la grande antagonista, che solo in extremis si rivela. Ma la Morte è anche un riflesso somigliante. Ecco perché la questione dei personaggi qui è molto interessante: essi rappresentano un uomo e una donna, Biancaneve e il cacciatore, ma in fondo è proprio nel punto in cui queste due immagini si avvicinano davvero che uno dei due in forma di Morte si assume il peso della scomparsa dell’altro.
Ma Biancaneve, uccisa dopo essere sopravvissuta al tentato omicidio da parte della matrigna, non si può salvare? Il suo destino, e dunque quello dello spettatore, è così fallimentare e desolante?
La morte sembra l’unica fine possibile, per questa Biancaneve, non se ne può immaginare un’altra. Le frasi pronunciate dal cacciatore dopo avere ucciso Biancaneve hanno a che fare con un rapporto con la propria immagine e la propria natura profonda. Nella favola originale dei Grimm, il principe è anche l’altro-specchio che ti consente di vederti. Questo strano specchio è una seconda possibilità. Nella favola dopo la morte/sonno per avvelenamento, Biancaneve ha la possibilità di tornare in vita tramite il rapporto con questo personaggio. Jelinek, invece, ribalta la questione: qui la morte avviene subito dopo il risveglio, e proprio per mano del principe/cacciatore. Morendo, Biancaneve si consegna al suo finale perfetto. Chissà quale sarà il finale di questa nostra storia, in cui l’attore principale è lo spettatore stesso…