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20/03/2018
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Maggio all'infanzia, dal 17 al 21 maggio a Bari


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Ivrea Cinquanta – Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967 – 2017. Genova, 5-7 maggio


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Un teatro in mezzo ai campi: 8 aprile con le Ariette


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''La formazione del nuovo pubblico'': un convegno sabato 25 marzo ad Albenga


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“Comizi d’amore”, open call per registi/drammaturghi e attori under 35 di Kepler-452


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La cultura nell'economia italiana: il 13 gennaio un convegno a Bologna


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Impertinente Festival: il teatro di figura a Parma, dal 7 all'11 dicembre


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Master in imprenditoria dello spettacolo, Bologna, anno accademico 2016-2017


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Dalla Cultura alla Scuola: ''Cosa abbiamo in Comune'', il 7 settembre a Bologna


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Electro Camp – International Platform for New Sounds and Dance, a Forte Marghera dal 7 all'11 settembre


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CONVERSAZIONI > Luoghi dell’indicibile: FaustIn and out. Intervista a Fabrizio Arcuri

In quali peculiarità specifiche di FaustIn and out può inserirsi il tuo intervento, o, meglio, cosa nelle maglie di questa scrittura proietta un luogo della tua mente e, quindi, sposta il testo verso una visione scenica.

Quello che più mi rende affascinante la scrittura di Elfriede Jelinek è la sua totale iconoclastia. Jelinek scrive e le parole distruggono le immagini. È una scrittrice che poeticamente lavora contro la visione e quindi contro la seduzione e questo è il suo atto più radicale e più intimamente politico. Io d'altronde sono attratto dai meccanismi drammaturgici e difficilmente scelgo un testo perché mi suggerisce delle immagini. È piuttosto la sfida di un meccanismo drammaturgico che mi attrae maggiormente. La radicale sperimentazione che si esplicita nel rifiuto della psicologia, nel montaggio di citazioni, nella riduzione dei personaggi a voci stereotipate, sono tutti indici di una nuova strada per la drammaturgia contemporanea che avvicinano la Jelinek a Heiner Müller e quindi a Brecht. Le parole consumano come una fiamma qualunque immagine scenica, le relazioni del dramma apparentemente rasentano la monodia della tragedia. Al contempo, una voce ne sottende sempre molte, è sempre un coro, è sempre "una" moltitudine. Come fa l'attore a non cadere nella trappola dell'impersonificazione o a rappresentare tante persone? Ecco la sfida che mi porta ad affrontare la drammaturgia della Jelinek. Questo suo rapporto conflittuale con l'idea di rappresentazione.

Il testo fa riferimento a uno spaventoso episodio di cronaca nera: la cittadina austriaca Elisabeth Fritzl ha vissuto imprigionata per ventiquattro anni in un bunker sotterraneo costruito dal padre che abusava di lei. Attraverso una vertiginosa stratificazione di riferimenti, dal Vecchio Testamento alla fiaba, dalla tragedia antica al Faust di Goethe, perno della scrittura, la Jelinek disegna i luoghi indicibili delle prigionie femminili, “tolti” dalla fiaba e buttati in faccia alla cronaca: torri, soffitte e scantinati…

FaustIn and out esplora il conflitto sociale tra uomo e donna e lo fa a partire dalla centralità del progetto maschile di cercare la felicità, assunto faustiano, per poi applicarlo a un fatto di cronaca estremo. Folle è l'impresa, l'impresa di rileggere l'occidente attraverso i suoi stessi enti fondativi. In FaustIn and out, Elfriede Jelinek utilizza tutte le categorie filosofiche, sociali, religiose e politiche per rintracciare le origini di una civiltà fallocratica e lo fa di compendio al Faust, la cui figura centrale della tradizione letteraria europea la scrittrice fa configgere con le teorie post-capitaliste, con Essere e Tempo di Heidegger e con continui riferimenti veterotestamentarii, tutti una trama di nessi che precipitano nel testo quasi in soccorso l’una dell’altra per trovare una giustificazione che non c'è, e non può esserci. Non c'è nella religione, non c'è nella filosofia e non c'è nell'economia. Non c'è nell'idea di comunità dell'occidente.

Di questo testo, a livello linguistico, colpisce il modo di usare parole, verbi che subiscono continuamente una sorta di slittamento. Si parte da un senso e poi la parola viene spostata in un altro contesto. Sembra la resa linguistica di una possibile emancipazione dal Verbo “in maiuscolo”, compendio della Legge del Padre. Con quali modalità viene preso in carico dalla messa in scena questo peculiare livello linguistico della scrittura presente in  FaustIn and out?

La sfida verbale e linguistica mette in evidenza che il gioco si consuma sulle parole non sulle immagini, che risulterebbero pleonastiche e didascaliche. La parola marcia e marcisce tutto quello che incontra quando a generarsi non è un pensiero, una riflessione: questa la sua potenza, questa la sfida che tentiamo di raccogliere. Parole che producono significati e che scavano dentro chiunque le senta. Ogni volta che una parola contribuisce a creare un'immagine, questa diventa troppo forte per permanere nella mente di chi ascolta e viene rimossa lasciando solo una traccia con cui si inanellano altre tracce. Segni. La scrittura di Elfriede segna. E quei verbi, quegli stessi verbi affrontano continuamente tutti i significati, anche quando sono costretti a diventare sostantivi per aprire una breccia come fa un trapano nel muro, come fanno le linguette dello stop quando lo si fissa, si allargano in tutte le direzione per rimanere sempre fisse. Ecco le parole della Jelinek sono mobili per rimanere immobili.

A livello attoriale questa parola che marcia e marcisce ha delle ricadute sulla voce emessa, sulla dizione o sull’interpretazione, questione nodale nella drammaturgia e in quella della nostra autrice?

Non credo che la questione possa essere risolta in maniera tecnico-formale, anche perché se ne restituirebbe un senso ma non un significato, sarebbe un processo estetico e non politico. Penso che lo sforzo debba essere più grande, è uno sforzo di pensiero quello che richiede Elfriede Jelinek. Bisogna pensarsi persone, poi attori, e poi personaggi nella riflessione dello spettatore. Bisogna tentare di stare dentro e fuori dal testo e fare in modo che sia chiaro che nessuna delle persone che sono lì a recitare possono interpretare o meglio possono costruire un percorso interiore che le porta all'immedesimazione con il personaggio.

Quali sono le prime operazioni che hai eseguito sul corpo del testo per trasmetterlo agli attori?

Il testo che stiamo lavorando è pressoché integrale. Abbiamo fatto piccoli tagli quando ci sono riferimenti della cultura austriaca. Stiamo poi facendo una sorta di messa in evidenza della struttura drammaturgica. Siamo davanti a un testo che non è chiaro per quanti attori è pensato, che ha di chiaro solo il fatto che l'attore principale deve essere una donna che guarda la televisione. Secondo Elfriede Jelinek è l'immagine della realtà che ormai abbiamo e che trasmette il Faust. Quindi quella diviene la nostra realtà. È più un'indagine da profiler quella che bisogna intraprendere per riconoscere continuamente quali sono i rapporti sulla scena tra gli attori, tra gli attori e i personaggi e tra gli attori, i personaggi e il pubblico. Abbiamo cercato di essere fedeli alle indicazioni e dunque stiamo dentro e fuori, sopra e sotto al testo. Così come Elisabeth è sotto, in cantina e la vita è sopra, in casa.

a cura di Lucia Amara


* L'intervista approfondisce la produzione di FaustIn and out. sotto sopra dentro fuori il Faust di Goethe con la regia di Fabrizio Arcuri nata all'interno del Festival Focus Jelinek e vede realizzarsi la collaborazione tra Accademia degli Artefatti e Tra un atto e l'altro intorno a un nodo che lega Goethe e Jelinek, oltre le loro volontà culturali e teatrali.

   

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