Sono in fila, sono sei donne nude, la vista cerca di mettere a fuoco una scena vuota, s’indovina un riverbero sui corpi generato dal palcoscenico rosso. Qualcosa impedisce una completa nitidezza, come avessimo la vista annebbiata, come stessimo osservando un sogno. Scaglie di contrabbasso, una rincorsa ordinata di note che pare iniziata prima dello spettacolo stesso, volute emotive che si propagano e s’inseguono senza soluzione di continuità. Le donne formano un corpo unico, escono da un primigenio letargo, testano le articolazioni, procedono per micro-gestualità. Gli arti superiori si piegano come a voler prendere qualcosa, ora il gruppo si riunisce compatto alzando le braccia e incurvandosi di lato, ricordando salici piegati dal vento. Una danzatrice si isola dalle altre, evidenzia il movimento delle giunture, sonda le possibilità delle articolazioni.
Il Preludio di Virgilio Sieni, prima parte de Le Sacre, si apre e prosegue in un’atmosfera aurorale, nella quale il coreografo toscano sembra studiare un “prima”, chiedendo alle sue straordinarie danzatrici di abitare un corpo al suo grado zero (in scena Ramona Caia, Claudia Caldarano, Patscharaporn Distakul, Sharon Estacio, Giulia Mureddu, Sara Sguotti). Certamente il loro è un corpo che prova ad abitare una condizione pre-rituale, un corpo che viene prima della Sagra alla quale assisteremo, ma forse anche prima di un’idea di fraseggio e di “utilizzo”, guardando a quel grado zero che accomuna danzatori e non professionisti, bambini e anziani, disegno del movimento e suo impiego quotidiano. Daniele Roccato, al contrabbasso, genera correnti energetiche che dall’iniziale inseguimento si tramutano in singulti, sincopi, inciampi: mentre l’archetto rimbalza sulle corde i corpi accennano a un volersi prendere e rincorrere, si bloccano in pose fisse, non ancora pronti a tramutare gli impulsi in disegni, i gesti in movimenti. Difficile, in questo Preludio ma anche nella successiva Sagra, tentare di descrivere la proliferazione del gesto, una teoria di vibrazioni e variazioni che solo di rado si distende in figure (in «radure»?). Restano impresse, le figure, “scacciando” dalla mente la tessitura, il suo farsi. Ora le donne cadono a terra, il violoncello vibra di una melodia triste, i corpi si radunano in cerchio, alzano le braccia e le abbassano, si tengono per mano, riportano alla mente figurazioni ritmiche come la Danse di Matisse. Eccola, forse siamo di fronte all’origine del gesto, del movimento, del fraseggio: una delle sei è scossa da un impulso che genera la rotazione del bacino, seguito da torso e gambe; per contatto l’impulso si trasmette alle proprie vicine, in una “dimostrazione” corporea che pare suggello sintetico di quanto avvenuto finora.
Preludio di Le Sacre è un pezzo che pare volere risalire a un “prima” rispetto alla formazione di un idioma: quello di Virgilio Sieni e della sua personale storia, vista come il compiersi di una trasfigurazione del gesto che sta procedendo verso un’idea di trasmissione. Ma anche prima della rappresentazione, con le iniziali variazioni dei corpi colti in momenti di stasi, omaggiando Edward Muybrigde. Rifare il punto del nostro dna, concentrando in venti minuti quello che ci ha condotto a come oggi siamo, è l’eccezionale dote di questo brano, che allo stesso tempo ci mette in allerta, invitando a riprenderci cura delle origini, mostrandoci l’uomo e la donna “in potenza”, prima che subentri la volontà e l’inevitabile significazione. Le sei donne terminano frontali, disposte nello spazio, quasi a guardarci e ammonirci: da ora in avanti l’esito non è scritto, dipende da tutti.
S’insinua il fagotto dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna, diretta da Felix Krieger. Erano entrati, camminando semplicemente, dodici danzatori, sei uomini e sei donne, tutti a torso nudo tranne due donne, tutti con un semplice pantalone color pastello (costumi curati da Giulia Bonaldi, con lo stesso Sieni). Unica nota divergente, una ragazza (Ramona Caia) con pantaloni rossi e faccia spolverata di tinte gialle. Si dispongono in schiera, allineandosi lungo l’asse verticale del palcoscenico, ricoperto da un tappeto da danza rosso che ne riempie l’intera superficie. Stravinskij e le dissonanze della Sagra: per Sieni un moto apparentemente caotico di tante molecole che ruotano attorno a nuclei mobili, la fila si rompe e si ricompone, i singoli slanciano gli arti nello spazio, ora distesi a terra ora in piedi, aleggia la sensazione di un raggruppamento umano che risucchia i singoli, che li attira a sé come una calamita, limitandone le evoluzioni personali, pur tentate. Eppure si riconosce una sottotrama che muove gli individui: la corsa per distanziarsi dalla massa, il movimento circolare che riporta indietro, il ritorno nei confini del gruppo. La donna dal volto in giallo, probabilmente l’eletta della Sagra, quella destinata al sacrificio come rito propiziatorio per la ritrovata fertilità della terra, viene manipolata, sostenuta, presa. Figure si ripetono internamente nel fraseggi, come fossero sintagmi che concedono appigli a chi guarda, unità lessicali minime in un florilegio di secondi, terzi, quarti piani coreografici. Uno di questi: una donna che si lascia cadere all’indietro, infine sostenuta due due figure maschili alle sue spalle.
Dopo una prima esplosione Stravinskij concede qualche secondo ai tenui clarini, e qui il gruppo si ferma all’unisono e molleggia sulle articolazioni, corpo unico che palpita insieme, corpo-moltitudine che “ci chiama” sul palco, perché quella palpitazione per istanti sembra la stessa di noi tutti, quella del pulsare del cuore. Come per il Preludio, anche qui è impossibile inseguire, captare, registrare il canone molteplice del gesto, nel quale si depositano ma subito scompaiono figure che ci raccontano di intrecci, sostegni, prese, incroci. Ci si può provare, a osservare i singoli all’interno di questa foresta, ma dopo un po’ l’insieme ha la meglio, sovrasta l’attenzione, la risucchia. Uniformità, dunque, nel suo conformarsi a una regola? O, piuttosto, l’idea di una collettività che si fa branco? Il cerchio studiato alle origini del suo impulso (Preludio) ora si dipana in un compiuta corsa circolare di dodici uomini e donne, sale il percussivo di Stravinskij, dando fuoco a un turbamento che aleggia fin dalle prime note, l’eletta rompe il cerchio, cade a terra, si contorce, rantola, seguita da tutti gli altri (le stesse danzatrici di Preludio con i danzatori Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Maurizio Giunti, Giulio Petrucci, Rafal Pierzynski, Davide Valrosso).
ph Rocco Casaluci
Nella dispersione che segue si recupera comunque un passo per per “ritrovarsi”, ci si prende per le braccia formando file unite orizzontali roteanti (l’opzione folclorica, risalendo ai riferimenti delle musiche?). Fino alla soluzione finale, che in realtà ci lascia con una domanda che resta pressante. La donna col volto giallo viene sollevata, ostesa sulla sommità di una piramide di corpi, poi tesa nelle sue estremità come fosse un elastico, girata e rigirata, slanciata come una bandiera o una vela che si gonfia durante una tempesta di vento. È un raggruppamento colto prima di diventare comunità, che dunque si prende cura dei suoi membri, per proteggersi? O, allo stesso modo, quel disegno di movimenti (leggi: coreografia) è un preparare il terreno per l’antico sacrificio, per l’espulsione che ristabilisce l’ordine? I danzatori sono scossi da un fremito, quello che prima appariva una palpitazione ora assomiglia più a uno spasmo di dolore. Frontali, ci guardano a braccia alzate, lasciandoci di fronte a un mistero che non può risolversi. Eppure lo sappiamo, adesso: è solo il corpo, la sua nudità, la sua “innocenza” ritrovata a essere in grado di percorrere quel bilico dove si osservano la libertà dell’azione individuale e le sue incolmabili mancanze, l’abbraccio della collettività e le sue strettoie. Ma anche, la solidità della coreografia e il suo chiuso perimetro, che preme per rompersi in danza.