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CONVERSAZIONI SCRITTE > SUB. Conversazione con Michele Di Stefano e Roberta Mosca

Michele Di Stefano è coreografo del gruppo MK, che si occupa di coreografia e performance. Nel 2014 ha ricevuto il Leone d’Argento per la danza in occasione del 9° Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia.
Roberta Mosca, affermata danzatrice contemporanea, 
per 14 anni ha collaborato con la prestigiosa Forsythe Company di Francoforte.
Questo dialogo fa parte del progetto Conversazioni scritte a cura di Lorenzo Donati, in collaborazione con Gabriele Drago e Jessica Imolesi, realizzato al festival Crisalide 2015.


Michele di Stefano e Roberta Mosca, SUB

SUB nasce come collaborazione “a distanza”. Ci raccontate come avviene?

Michele Di Stefano: Io e Roberta Mosca ci siamo incontrati professionalmente in occasione dello spettacolo Il giro del mondo in ottanta giorni. È stato da subito un innamoramento totale! Da allora aleggia una fame di collaborare che si è concretizzata nel progetto SUB. Roberta aveva lasciato la compagnia Forsythe, aveva di fronte un paesaggio indefinito e io mi sono fiondato su tale indefinizione, proponendole una condizione di apertura e autonomia. Dunque non le ho chiesto di lavorare da interprete, ma da autrice. Il punto di partenza è stato la proposta di lavorare insieme a distanza, mantenendo il segreto reciproco, sia rispetto all’informazione coreografica che allo sviluppo dell’interpretazione. Abbiamo scelto una modalità di relazione attraverso il carteggio, forma che io ho sempre praticato costruendo in passato progetti di “intrusione” negli spettacoli, scrivendo a dei performer per chiedere loro degli appuntamenti in scena allo scopo di rendere più fragile la struttura del lavoro. In questo caso abbiamo proceduto accumulando informazioni scritte, eppure ci tengo a sottolineare che SUB non è un’improvvisazione a partire dalle istruzioni di partenza, non è una semplice risposta a questo. Non si tratta di trovarsi allo sbaraglio di fronte a una serie di coordinate da sistemare, Piuttosto, lo spettacolo indaga il momento esatto che precede il discorso, facciamo riferimento a un carteggio per evidenziare come la danza che emerge sia un’assunzione di responsabilità nei confronti del dire. La performance è affidata a Roberta in maniera selvaggia, non c’è nemmeno un accordo sulla gestione interna della partitura di movimento, è una responsabilità completamente sua, ma la responsabilità del dire è condivisa. Perciò qui a Forlì vedrete una mia pre-performance, non un’introduzione ma una condizione dove anche io sono in scena con un discorso.
L’idea alla base di SUB è quella che il lavoro venga gettato alla deriva, accettando di cambiare le condizioni spaziali anche in modo radicale, ricreando continuamente le condizioni della sua comunicazione. A Milano per esempio lo abbiamo proposto in un salotto borghese, si svolgeva su un tappeto, il pubblico era tutto intorno e il suono proveniva da alcune radioline ai lati. Qui siamo in un faccia a faccia dichiarato.
In termini di danza, il lavoro ancora una volta è lo scavo attorno alla distanza fra persone, cose, concetti; è il modo in cui si sceglie di raggiungere una prossimità. In questo senso, “la distanza” è molto feconda; si corre il rischio di non potere calibrare il lavoro secondo le tradizioni ritmiche consolidate (diceva ieri Silvia Rampelli: “L’efficacia della rappresentazione”). Quando ci sono tali rischi mi assale una sorta di contentezza.



In che modo lavorate dopo l’esecuzione, come intervenite ulteriormente di replica in replica?

M.D.S: Ci sono silenzi e altri carteggi, ma che non sono consequenziali a quello che si vede. Io non osservo il pezzo per valutarne un possibile sviluppo, è come se non avvertissi l’esigenza di discutere del potenziale interno, della forma. È una relazione particolare, una solitudine parallela che ogni tanto cerca un riscontro. In generale, è molto difficile stabilire regole. Certamente il nostro intento è scavallare l’improvvisazione strutturata, per capire come costruire la circostanza.

Roberta Mosca: Vicinanza e lontananza producono un piano del comunicare ricco, fertile. Ci sono delle zone al buio, oscure, dove non si sa come la vita prenda forma, eppure la forma avviene. Il riscontro si produce quando ci incontriamo, lì si ritrovano elementi che si avvertono come familiari. Si tratta di corrispondenze estremamente inaspettate e profonde. Questo modo di procedere per me è inusuale, eppure in qualche modo prosegue nel tipo di lavoro che per anni ho svolto dentro alla Compagnia Forsythe, contesto nel quale si è sviluppato un sempre maggiore senso di autonomia e responsabilità, mettendo a punto nuovi codici di valutazione della coreografia.  Con Michele Di Stefano creiamo una sorta di “luogo comune” utile per ritrovarci. I testi che lui mi invia li ho sempre percepiti “fisicamente”, come se fossero dei pezzi a sé, dei lavori poetici compiuti ma in grado di completarsi grazie ad altre zone di lavoro.

In che modo tale autorialità differita sposta l’idea di coreografia?

M.D.S: Innanzitutto manifesta l’assenza di un’idea spettacolare. Tale assenza si trasforma in un atto di presenza che permette di qualificare la coreografia nella danza, nella decisionalità performativa del performer autore. Manifesta un tempo per pensare che non è soggetto alla retorica dell’improvvisazione né all’efficacia della costruzione drammaturgica. È una zona intermedia, ci interessa che emerga la possibilità di una presa di possesso dello spazio in termini di comunicazione, rilanciandola sempre a un futuro, dato che in poche parole lo spettacolo non c’è. Ovviamente questo discorso è una domanda in atto, non è detto che ci stiamo riuscendo. In scena si manifesta una presenza evidente: c’è solo lei, è pura significanza, qualcosa che viene rimandato in continuazione. È un bilico, e a volte ci domandiamo in che tipo di profondità stiamo scendendo, mentre altre ci accorgiamo di scivolare nella superficialità, che mi pare una buona cosa. Il gioco è affidare tutto al corpo, alle sue parti, al melos, al canto che lei produce quando è in scena, alla presa di parola di ognuno di noi nei confronti dello spazio e dello spettatore. Abbiamo l’ardita certezza di credere che questo tipo di informazione sia una comunicazione molto chiara, e che dare forma a un’idea spettacolare avrebbe tolto forza a tale comunicazione. Vogliamo che non ci sia niente, vogliamo mostrare la pura ritmica che “si fa nel suo farsi”, nella decisionalità. Roberta decide continuamente, si vede, ogni frazione di secondo prende una decisione. Come tutto questo sconfini o collimi con un ambito di improvvisazione è la domanda che stiamo costruendo.

Dunque, prima di tutto, forse è un lavoro sulla percezione.

M.D.S: Roberta Mosca ha una qualità: riesce a spegnere immediatamente, in chi guarda, qualsiasi rimando alla traduzione. Roberta inizia a danzare e si manifesta un momento di passaggio, un varco che permette l’accesso a un movimento “puro”. Questa è una ricchezza che mi interessa annusare, non tanto delinearla. Mi piace avere in mano tali momenti che non possiamo tradurre o interpretare. Non sono interessato in questo caso alla produzione dell’immagine, o alla sapienza ritmica, sono elementi che do per scontati, lavorando con una danzatrice con la sua esperienza. Mi interessa la capacità di dilatare o accorciare enormemente il momento in cui si accede al movimento puro. Quando si verificano questi momenti di passaggio, come spettatori riceviamo un’informazione capace di agganciare lo sguardo. Si produce un calo di tensione che ci permette di mettere a lato l’esigenza di una compiutezza spettacolare.
In alcuni luoghi, come Crisalide, viene reso possibile l’attraversamento di tali problematiche. Questo teatro è un luogo cavo, permette di fare passare un certo tipo di energia. Altrove questo spazio non è dato, allora è necessario lavorare per deflagrazione. Qui è in atto un tentativo di fondazione, ci sono dichiarazioni e richieste di sostegno. Credo che ci sia estremo bisogno di buchi, di luoghi che funzionano come tubi, come spazi cavi.



Come questo ragionare sulle crepe, sulle cavità, può farsi discorso e non solo precondizione? Lo chiedo anche alla luce del tuo percorso, nel quale hai sollecitato azioni e non solo mostrato spettacoli (Tropici a Roma, Piattaforma della danza balinese a Santarcangelo).

M.D.S: Con la Piattaforma della danza balinese, questa estate ci siamo accorti con forza dell’esistenza di un intorno che manifesta necessità mostruose. Come quando si organizza una festa, e a un certo punto si presentano settecento persone. C’è un desiderio forte e non strutturato di coabitazione e condivisione, ma anche di produzione di discorso. Credo che in molti stiamo facendo una corsa folle e si avverte l’esigenza di uno scarto, o almeno è così per me. Sento il bisogno di testare le regole. Con Tropici tale esigenza si rivolge al limite fra inizio e fine di uno spettacolo. Balinese era nel 2014 uno spazio crepuscolare e selvaggio, mentre quest’anno è stata ospitata nella sala del consiglio comunale, occupando un “centro”. Si è manifestata un’emergenza rispetto a un affollamento, a una tensione di avvicinamento. Non sempre ci si riesce a mettere in relazione con i discorsi prodotti dai sistemi culturali, però piano piano stiamo cercando di occupare tutte le posizioni, passando per il centro o restando in periferia.

In che modo tale ragionare si trasmette al procedere poetico, ai confini e alle porosità fra libertà della danza e chiusura della coreografia?

M.D.S: Mi trovo da sempre all’interno di questa problematica. Sin dall’inizio ho tentato di considerare gli spettacoli degli altri come luoghi da attraversare. Se lo spettacolo non è aperto, bucato, per me non funziona, non sono spinto a guardarlo. Io, nel fare, avverto la necessità di essere chiaro rispetto alla collocazione del mio lavoro. Non mi interessa tanto l’autorialità ma dove il lavoro è concentrato, dove comincia e dove finisce, cosa c’è prima e cosa dopo. Nel caso di SUB c’è una persona che risiede a 900 km da me. Ogni volta che collochiamo un lavoro in un determinato contesto, è necessario confrontarsi su dove si è. Mentre prima al centro c’era una sorta di teoria dell’ovunque, oggi mi pare sia in atto una relazione più problematica che rende necessaria una responsabilità nei confronti del luogo in cui ci si trova e dell’arco temporale in cui sta costruendo un percorso.

Mi pare che la danza stia attraversando un momento di vitalità. Vari progetti nascono in contesti anche istituzionali e s’intravvede la possibilità di aprire varchi capaci di parlare non solo a pochi. Cosa si sta intercettando?

M.D.S: Io faccio quello che faccio perché credo in maniera assoluta nella capacità della danza di essere strumento di conoscenza del mondo, o comunque di attraversamento. Credo nella capacità della danza di allagare il circostante. Forse stiamo allagando sempre più la palude e contemporaneamente procediamo alla sua bonifica.

Intervista realizzata in collaborazione con Gabriele Drago e Jessica Imolesi, pubblicata il 22 gennaio 2016


di Lorenzo Donati


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