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CONVERSAZIONI SCRITTE > Il tempo come trascendenza. Conversazione con Silvia Rampelli

Silvia Rampelli, laureata in Filosofia e docente del Master in Artiterapie all’Università Roma Tre, focalizza la sua riflessione sulla natura dell’atto performativo e sul dato umano come oggetto estetico-conoscitivo. Attiva nella creazione e in ambito teorico, formativo e sociale, fonda Habillé d’eau nel 2002 con la quale è prodotta dalla Biennale di Venezia, diretta da Romeo Castellucci, ed è presente nei maggiori festival italiani e in Francia, Bosnia, Stati Uniti, Polonia. Conduce seminari nell’ambito della danza performativa e di ricerca e laboratori in contesti di svantaggio.
Questo dialogo fa parte del progetto
Conversazioni scritte a cura di Lorenzo Donati, in collaborazione con Gabriele Drago e Jessica Imolesi, realizzato al festival Crisalide 2015.


Silvia Rampelli, Courtesy of

Courtesy of è un lavoro in video che arriva in un periodo in cui sei “a lato” delle scene.

Dopo il 2008 mi sono praticamente ritirata, non intravedevo le condizioni possibili per il mio lavoro. Or, spettacolo del 2012, è l’ultima creazione teatrale e Strutture elementari dell'azione è un esperimento concepito insieme a Romeo Castellucci nel 2014 e presentato all'Università di Roma. In realtà non ho mai smesso di lavorare, ma ho sempre messo davanti a tutto il tempo, il tempo necessario, e ora sempre di più, dal momento che non ho nessuna fretta di presentare al mondo qualcosa.
L'arte è per definizione uno spostamento di paradigma, nel teatro tutto ciò che non è paradigma è estromesso, la logica in atto è invertita. Non mi sento parte di questo mondo, di fatto non ne sono parte. È una difficoltà che non ferma la riflessione, l'acuisce.
Courtesy of è un video di 19 minuti per due figure: Franca Vorgnano, una signora con malattia di Parkinson, e Alessandra Cristiani, una danzatrice con la quale collaboro da sempre in Habillé d’eau. Nel 2013 Romeo Castellucci mi chiese se fosse possibile presentare al Malta Festival di Poznan qualcosa del lavoro che svolgo da anni con persone che hanno la malattia di Parkinson. Semplificando all’estremo, al livello motorio questa patologia comporta episodi di arresto involontario del movimento e - all’opposto - di movimento involontario. Inoltre le persone vivono fasi “on”, quando l’effetto dei farmaci riesce a contenere almeno in parte i sintomi, e fasi “off”. Con queste problematiche non potevo pensare di andare in Polonia, così siamo arrivati all’idea di un video. Il tema del festival era il rapporto uomo/macchina, non prettamente inerente al lavoro che sviluppo. Ho dunque inteso per “macchina”, la macchina corpo, il meccanismo corporeo. Il parkinsonismo è una condizione con valenza metaforica, nella quale l’uomo si trova manifestamente in balìa di una macchina: il corpo è vissuto come una gabbia, un motore senza governo, il tempo del corpo si separa dal tempo della coscienza, producendo uno sfasamento temporale che mina la dimensione identitaria. Il corpo è una macchina che ci trascende e che tuttavia noi “siamo”. L'essere umano è degenerativo: in questo senso il Parkinson è metaforico, simboleggia una crisi che ognuno è chiamato ad attraversare. Penso che misurarsi con questo tema sia profondamente reale.
Naturalmente tutto questo nel video non c’è. Courtesy of è la ripresa di un esercizio eseguito solo quella volta, da due persone che si sono incontrate unicamente quella volta. Mette in campo un'azione semplice: camminare, sedersi, alzarsi. È un lavoro sul tempo, sulla processualità dell'atto, sull’involontarietà del corpo. Manifesta una questione ontologica, il tempo come trascendenza.
È un video povero dal punto di vista della realizzazione tecnica. Credo però che mostri molto. Recentemente ho voluto che fosse questo lavoro a rappresentare il percorso di Habillé d'eau in un contesto pubblico.
Nel tempo, negli anni, mi è diventato chiaro quanto, fuori da ogni retorica, la mia pratica artistica non differisca dai percorsi che conduco nei contesti terapeutici. La terapeuticità consiste nell’attuazione di processi trasformativi e il mio compito come conduttore sta nel creare le condizioni perché la persona possa vivere un'esperienza trasformativa, possa – attraverso l’esercizio – modificare e riorganizzare la percezione di sé. La riorganizzazione percettiva è un'esperienza estetica e ciò che viene posto in essere di fatto – senza alcuna strumentalizzazione dei fenomeni di disagio – è un processo artistico, non nel senso del prodotto, ma dell’approccio metodologico.
Dal punto di vista dei processi, vengono sollecitate dinamiche che incontro anche nel lavoro di creazione con Habillé d’eau. In Courtesy of Franca e Alessandra avevano ricevuto indicazioni esatte e allo stesso tempo “deboli”: la mia domanda riguardava la focalizzazione di alcuni minimi accadimenti organici e lasciava improvvisativamente aperta la possibilità di accogliere e amplificare queste modificazioni. Quello che si vede nel video non è altro che una risposta concreta – performativa – alla domanda posta. È un processo che credo possa avvenire in qualunque condizione, in ogni contesto, se la domanda è posta in modo corretto.

Un processo di trasformazione della percezione rivolto a sé, non ha bisogno di una dimensione collettiva per dirsi “estetico”?

Estetico è ciò che riguarda la conoscenza sensibile. Se compio un'esperienza reale che mi consente di percepire differentemente me stesso, se posso riorganizzare la percezione che ho di me, se posso guardare con occhi nuovi, questi occhi nuovi li rivolgo al mondo perché è nel mondo che esisto. Diventando “altro da me” - cioè assumendo il mio essere-sentire attuale, libero dall’abitudine e dal giudizio - mi pongo al mondo in un modo nuovo. Poiché il mondo è un campo di forze, una forza che si proietta differentemente in un campo è in grado di trasformare il campo stesso. Porsi in modo nuovo, perché ci si vede in modo nuovo, produce un cambiamento nel mondo. Tutto questo ha una ricaduta estetica, nel senso della possibilità di delineare un orizzonte critico. Mi riferisco a chi è coinvolto nell'azione artistica, ma anche al fruitore. Chi guarda si relaziona a un dato sensoriale che apre un'interrogazione, una domanda che mette in moto, che impone di mettere in questione il paradigma visivo, l’assetto di conoscenza. "Che cos'è?" Ogni volta che viene innescata questa domanda, la domanda ontologica, viene attivato un processo estetico, dunque conoscitivo. "Che cos'è?" Per me è tutto qui. Quando entro in un teatro vorrei sempre chiedermi: "che cos'è?" Vivere uno stato di incertezza, di crisi. È la ragione per la quale l'arte ha origine. L'arte è la pratica della domanda.



In che modo tali constatazioni divengono principi operativi della tua creazione?

Credo che il teatro sia un luogo potenziale, nel quale lo spettatore possa – almeno transitoriamente – smarrire le proprie abitudini percettive. Devo quindi creare le condizioni effettive d’esperienza perché questo accada. Nel corso del tempo ogni progetto è stato originato da questioni concrete, specifiche, che hanno reso necessario un costante spostamento metodologico. Ogni spettacolo ha dovuto in qualche misura istituire un proprio linguaggio. Spazio, tempo, luce, suono, presenza, tutte le componenti e reciproche interazioni di una circostanza performativa sono state diversamente avvicinate di opera in opera, nonostante un fondo comune che ovviamente resiste. Per essere più chiara, posso dire che, per esempio, nello spettacolo Ragazzocane (2005) indagavamo quale potesse letteralmente essere la materia dell'atto. Cosa potesse dare all’azione una “legalità” teatrale, cosa fosse possibile mettere in campo ed essere ancora definito “danza”. Chiedevo allo spettatore di condividere le mie interrogazioni. Il lavoro forzava in un certo senso i limiti del linguaggio. Le avevo chiamate azioni terminali. La sequenza impossibile di queste azioni, per natura radicalmente differenti fra loro, nondimeno creava una connessione fortemente narrativa. L’origine aveva trovato un parallelo nell’azzeramento cartesiano, la riduzione al corpo, quella macchina di ossa e muscoli che si riscontra anche in un cadavere e nella conseguente riflessione sulla sufficienza e sulla insufficienza del corpo. La domanda iniziale aveva generato una modalità di lavoro, dei materiali e concretamente una struttura.
Molto tempo dopo Strutture elementari dell’azione era una riflessione sull’emergere della rappresentazione nella percezione dello spettatore. Un’azione semplice veniva ripetuta “n” volte e a ogni successiva occorrenza era arricchita di una condizione. Una somma algebrica, priva di emozione, contenuto, referente. L’idea era quella di sovresporre il meccanismo, di consegnarlo allo sguardo dello spettatore nell’istante stesso in cui si compiva, di consegnargli la consapevolezza dello sguardo. La visione poetica, la rappresentazione, come dato emergente in grado di istituire nessi causali e narrativi era programmaticamente ostacolata, esclusa e tuttavia insorgeva eventualmente nello spettatore come istanza di senso, innescando una sorta di azione retroattiva capace di imporre coerenza al già visto.
Anche in questo caso la necessità di creare determinate condizioni di esperienza per lo spettatore aveva orientato la metodologia di lavoro, l’elaborazione e il montaggio dei materiali.
Il mio compito è fare ipotesi percettive. Lavoro per creare in chi guarda possibilità.
Il teatro ha un aspetto “bellissimo”: il tutto visibile, il tutto sensoriale, il tutto finito, il tutto finto. È questa concretezza a originare conoscenza. Tutto è in quella scatola. Il limite è il segno di un oltre, una prospettiva metafisica. La dimensione del tempo è ciò che permette il salto. Il tempo è di per sé crisi del paradigma.

Prima parlavi del “reale”, a proposito del lavoro con persone affette da Parkinson.

È una mia esigenza personale quella di essere nel reale. Penso che in qualche modo l’arte possa avvicinare al reale. Ma il mondo dell’arte ci allontana costantemente perché è un mondo di vanità e di privilegi. La contemporaneità non appartiene all'arte, quella è informazione. L'arte ha la capacità di mettersi al fondo delle cose, di avvicinarsi a quel fondo che forse non muta mai.
Io sento la necessità di una contiguità, di una prossimità con l'altro. Anche in situazioni di distanza, credo nella possibilità di innescare condizioni di esperienza in grado di cambiare immediatamente la relazione.
È possibile istituire mondi reali nel reale, l’arte è in grado di farlo. Non si tratta di fare chi sa cosa, ma di operare qui e ora. Parlare con persone diverse, di provenienze diverse, ed essere compresa. Il qui e ora non può valere soltanto tra le quinte. Se arrivo solo a quattro persone che conosco, il mio lavoro è insufficiente. Mi è capitato di fare laboratori in contesti dove la mia proposta non ha alcun valore riconosciuto a priori, se non quello che effettivamente accade, quello che di fatto scambio. Mi è capitato di lavorare in circostanze molto difficili e fallire. È ricco provare ad arrivare a chiunque in qualsiasi condizione o contesto con le parole e con gli esercizi che ci appartengono. I nostri strumenti sono l’osservazione, la pratica, la relazione. Sono temi fondamentali. In questo senso mi interessa il reale, il rischio, il luogo in cui il pensiero sulla performatività incontra il proprio limite e quando la realtà mi dice no, sento il desiderio di approfondire questo rifiuto, di conoscerlo.

Intervista realizzata in collaborazione con Gabriele Drago e Jessica Imolesi, pubblicata il 28 gennaio 2016.


di Lorenzo Donati


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