Dal 28 al 31 ottobre 2016 si è svolta la XXIII edizione del festival Crisalide, a Forlì, ideato e curato da Masque Teatro. In quella occasione, attraverso il progetto "Conversazioni scritte", sono state prodotte una serie di interviste con gli artisti in programma con il desiderio di porsi, direttamente e non, una domanda di fondo: perché il teatro? Continuiamo a parlare del teatro, della danza, della performance in termini di differenza, misurando la possibilità che quello della scena sia uno spazio di alterità, di contraddizione, di rivelazione. Sono ipotesi ancora in campo? Attorno a questo spunto si sono costruite conversazioni che hanno ovviamente anche cercato di discutere delle poetiche dei singoli artisti, e degli spettacoli del festival.
Le interviste sono a cura di Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi.
Danza e musica, ci racconta questa dialettica dal suo punto di vista?
Ho un lungo percorso all’interno della danza, a partire dal primo lavoro di Myriam Gourfink nel 1999 ma anche da prima. Ci deve essere una ragione per questa mia vicinanza all’arte coreutica, in effetti io non ho mai danzato. Se dovessi andare subito al cuore della questione, direi che l’immaginario “piano” della danza mi ha sempre attratto: la danza è una forma d’arte che invita la mente a un pensiero libero, mentre la musica al contrario stringe, chiude. Altro elemento è l’attrazione che provo verso il modo di pensare dei coreografi. Chi disegna il movimento nello spazio spesso si pone domande che esulano dalla stessa disciplina, è spinto a una visione globale, mentre noi musicisti molto spesso ragioniamo su elementi esclusivamente musicali, interni alla disciplina. Pensiamo solo al paradosso, per me affascinante, della “danza senza danza”. Teoricamente, ma anche concretamente è possibile concepire una danza al cui interno non venga eseguito nessun passo di danza (penso a certi ultimi lavori di Christian Rizzo o di Gisèle Vienne). La danza si può manifestare senza danza, mentre perché questo accada con la musica sono servite opere spartiacque (4’ 33’’ di Cage o certi lavori di La Monte Young).
Quale relazione ha creato negli anni con Myriam Gourfink?
Con Myriam abbiamo prodotto trenta lavori, circa due all’anno dal 1999. La domanda sull’autorialità dell’opera è ancora centrale, io sono un compositore e musicista e mi esibisco ovviamente anche da solo, ma è come se mi concepissi sempre come membro di una compagnia di danza, ne sono la voce musicale. Almasty è a tutti gli effetti un mio lavoro. Solitamente è la danza il punto di partenza degli spettacoli, anche se non è sempre stato così, penso a un lavoro del passato con in scena Myriam stessa, Deborah Lary e Cindy Van Acker (Choisir le moment de la morsure, 2009). In quel caso la traccia musicale faceva da coreografia, era come se il movimento fosse implicito nella musica, la coreografia non era tecnicamente “scritta” da nessuno. Questo è un caso limite, solitamente la nostra collaborazione non verte mai sul come (come eseguire un gesto, come quella partitura musicale debba orientarsi ecc.) ma quasi sempre sul cosa. Non parliamo di ritmi, di melodie, anzi in generale non parliamo molto del lavoro. Diciamo che ognuno di noi costruisce il suo campo, che poi viene fatto dialogare con quello dell’altro in sessioni congiunte una settimana prima o poco più del debutto. Siamo come quegli arbusti che all’apparenza sembrano piante distinte, ma che sotto la superficie visibile condividono le radici. Quello che si vede e si ascolta è il tronco, sotto ci sono trame, nodi, legami che conosciamo e che chi guarda intuisce, ma forse è bene che non veda. Va tenuto presente dunque che ogni parte di questo albero cresce anche spontaneamente.
Come avete proceduto nel caso di Almasty?
Almasty è ispirato a una specie di yeti. Per comporre le sue musiche ho pensato al concetto di invisibilità: dov’è? Nessuno lo vede. Ho immaginato un paesaggio e le balle di erba dei western, ho imparato che queste balle sono vive, anche senza radici. Una scoperta che mi ha stupito e orientato nella composizione. La musica che ho creato vorrei che sembrasse composta da elementi che prendono vita propria, io lavoro sulla texture, qualcuno lo definisce noise. Tali elementi crescono fino a costruire un muro. Queste sono però immagini vegetali, dunque la prima domanda che mi pongo è: quanto dureranno queste immagini? La musica è tempo, anche se questa affermazione mi provoca sentimenti contrastanti. Se pensate alla quinta di Beethoven non la immaginate tutta nel suo svolgimento. Che la musica sia tempo è un’affermazione quasi sempre vera, dunque. Il tempo della danza può essere più compatto, si può estendere.
In Almasty io conosco la danza e la danza sa bene come è conformata la musica. Se sovrapponiamo un qualsiasi movimento sulla musica non è così difficile trovare momenti in cui i due linguaggi insieme funzionano. Noi però non lavoriamo così, non ci diamo lacci ritmici, non cerchiamo coincidenze specifiche ma ci concentriamo sull’andamento generale. In uno spettacolo del 2007 Corbeau, io suonavo il gong, dunque non vedevo la danza, eppure le persone credevano che avessi un qualche sensore che ci permettesse la sincronia. Invece nulla era sincronizzato visivamente, la danza io non la vedevo. Che cosa è, dunque, questa relazione? Non vorrei arrivare ad affermare che si tratti di respiro congiunto, ma quasi. È un movimento dialettico, non si improvvisa nulla, sappiamo a memoria le durate, tutto è calcolato e preciso. Prima di tutto, però, va detto che io e Myriam parliamo delle stesse cose da venticinque anni, io lavoro nello stesso studio dove nasce la coreografia, sto a stretto contatto con la danza anche senza comporre. Vivo in quello spazio e mi nutro dello stesso ritmo di vita, giorno per giorno
In un suo scritto teorico di qualche anno fa parlava della differenza fra composizione e scrittura, individuando con la seconda il processo di trascrizione di qualcosa di già provato...
L’idea di texture è predominante nella musica di oggi. Il sistema di lettura delle note classico, il solfeggio, è un’invenzione incredibile ma oggi del tutto inefficace, a me non serve più. Possiedo tonnellate di carta con musica annotata, la grandezza e larghezza della carta è fondamentale, la misura del foglio, il colore, la grana danno una precisa misura anche alla musica che si compone, cambiano il modo in cui si scrive. Comporre significa passare tutto il giorno di fronte alla pagina bianca. I compositori di musica classica contemporanea sono feticisti delle penne. Matite, penne a inchiostro, penne a sfera, stilografiche: parole e parole, discussioni sui social attorno a quale strumento di scrittura utilizzare. Ma torniamo al solfeggio. Oggi la musica è molto cambiata e nella nuova musica i due elementi probabilmente meno importanti sono i toni e il ritmo. Abbiamo dunque un linguaggio estremamente preciso per parlare di cose che ci interessano fino a un certo punto, mentre non abbiamo linguaggio per discutere e descrivere ciò che è essenziale (i timbri, i rumori). Un tono tecnicamente è una specifica frequenza di vibrazione dell’aria. Il colore è una vibrazione, che però sta tra due livelli, sta in un cloud, in un range. Possiamo parlare di “più o meno rosso”, dentro a una “nuvola” di possibilità. Se illuminato il rosso può tendere al grigio. A me interessa questo cloud, non l’unicità che mi indica un tono. Penso a come si parla di rumore bianco (la stessa energia su tutti i toni) e rumore rosa. Possiamo solo descrivere un “più alto” o “più basso”, percepiamo le differenze ma non lo possiamo scrivere, non c’è il linguaggio. La struttura è importantissima, non sto dicendo che non lo sia. Ma nella mia pratica il solfeggio scompare, a volte scrivo una nota o due, oppure scrivo tantissimo ma senza quasi nessuna nota.
Che cosa è, dunque, la composizione in danza?
La danza mi fa pensare che si compongano anche cose che non esistono. Penso alle composizioni per strumenti a vento di Wagner... non c’erano strumenti adatti ad eseguirle, dunque sono stati inventati, sono nati i Wagner Tubas. In un metalinguaggio non c’è una relazione diretta col linguaggio, dunque possiamo immaginare relazioni che ancora non esistono. Colori mai visti o strumenti che non ci sono. Nella danza si ha la libertà di scrivere coreografie per un braccio, oppure per due braccia, magari per tre braccia... non c’è un danzatore con tre braccia! Oppure c’è Stelarc. È una possibilità. Quando stiamo seduti al piano, dunque quando “scriviamo” la musica misurando la sua riuscita, possiamo suonare solo quello che siamo in grado di eseguire. Invece stando seduti allo scrittoio possiamo provocare cose che non siamo in grado nemmeno di pensare. Che cosa è musica, e cos’è un artefatto trascritto successivamente? Le dita che scivolano sui tasti di Jimi Hendrix sono scrittura o composizione? Si racconta che dopo un’esecuzione sia stata mostrata la partitura trascritta a John Coltrane, il quale rispose: no, non posso farlo, è troppo difficile. Dunque cosa è musica e cosa no? E dentro la musica, dentro l’arte, quale spazio diamo alla composizione? La danza non è così diretta, è tutto preciso ma non è così deterministico. Il mio cruccio attuale è concepire partiture che permettano di indicare non cosa fare ma quale direzione prendere. Come descrivere un brano di Stockausen? Come trascrivere un quadro di Pollock? Può uno score trasmettere un sentimento? Oppure trascrivere uno scopo?
Ha composto Burning Eyes perché fosse eseguito di notte, in una foresta...
Il concetto era partire dal luogo, un piccolo paese al confine fra Polonia e Repubblica Ceca. Partire dagli alberi senza ricostruire un suono organico, ma capire come l’ascolto avrebbe mutato lo spazio e il luogo. Mi pongono spesso una domanda, soprattutto i musicologi. È musica? Se è musica allora la devi potere trascrivere. È una domanda ingenua: certo che lo posso trascrivere. Qui mi interessava esplorare il confine fra luogo e suono, indagare come quel luogo e quel suono (quella foresta) sarebbero cambiati dopo di me, senza di me. Il suono della foresta senza di me cambia: resta musica, quella che ascoltiamo? È musica una foresta di notte? La musica è una decisione, se sia musica o se non lo sia dipende dalla nostra volontà come esecutori ma anche come ascoltatori. Io entro al supermercato e nelle casse di diffusione sono costretto ad ascoltare Lady Gaga o Beyoncé. Sono sicuro di non stare ascoltando musica. Penso alle tantissime persone che ascoltano musica negli auricolari, questo è il modo più diffuso, praticamente l’unico. Si ascolta tantissima musica, ma sono convinto che in ciò ci sia davvero poca musica, o almeno è un concetto di musica estremamente povero. La struttura di una sinfonia ci diventa chiara già al secondo ascolto, eppure oggi della miriade di dettagli che ci circondano ho l’impressione che restino immediate. Accettiamo l’idea di perderci, di non seguire, di diminuire la densità delle nostre esperienze.
Dialoghi con gli artisti. Progetto a cura di Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi.
Intervista realizzata al Teatro Félix Guattari (Forlì), 30 ottobre 2016