Dal 28 al 31 ottobre 2016 si è svolta la XXIII edizione del festival Crisalide, a Forlì, ideato e curato da Masque Teatro. In quella occasione, attraverso il progetto "Conversazioni scritte", sono state prodotte una serie di interviste con gli artisti in programma con il desiderio di porsi, direttamente e non, una domanda di fondo: perché il teatro? Continuiamo a parlare del teatro, della danza, della performance in termini di differenza, misurando la possibilità che quello della scena sia uno spazio di alterità, di contraddizione, di rivelazione. Sono ipotesi ancora in campo? Attorno a questo spunto si sono costruite conversazioni che hanno ovviamente anche cercato di discutere delle poetiche dei singoli artisti, e degli spettacoli del festival.
Le interviste sono a cura di Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi.
Avevo cinque anni e suonavo le pentole di mia madre, poi ho iniziato con la batteria; grazie alla famiglia sono sempre stato vicino alle musiche e all’arte, nel 1978 sono salito sul “Treno” di John Cage a Ravenna, ricordo i microfoni nelle rotaie, gli schermi sui vagoni, io avevo una trombetta giocattolo e mi rivedevo negli schermi. Cage era seduto su un sedile a tre posti, io sono andato a salutarlo e l’ho abbracciato. Avevo sette anni. In seguito mi sono avvicinato alla musica da un punto di vista teatrale grazie a mio fratello Jean Michel Arevalos. Lui aveva fondato le Botteghe artistiche ravennati, composte da scrittori, musicisti, sceneggiatori. Quando avevo poco più di vent’anni abbiamo prodotto Favole in musica, eravamo quattro diversi compositori e ci esibivamo nelle nostra casa in Via Salara. Mi sono poi iscritto al Conservatorio, studiavo a Parigi, in quel periodo ho conosciuto Luigi de Angelis di Fanny & Alexander. Seguivo già i loro lavori a Ravenna all’Ardis Hall, ma lavorare con loro è stata un’esperienza fondativa, dal 2003 al 2006 sono stati tre anni intensi di collaborazione attorno al progetto Ada Cronaca Familiare. Con loro ho eseguito musiche di Morton Feldman, Olivier Messiaen, Franz Ligeti lavorando in generale sulla sinestesia, concetto fondamentale nella scrittura di Nabokov; anche per Messiaen la sinestesia è un concetto cardine rispetto all’associazione fra note e colori. Grazie a questo percorso ho incontrato anche Bruno Perrault, con il quale formiamo attualmente un duo formato da pianoforte e Ondes Martenot.
Degli ultimi anni è la collaborazione con Masque Teatro, che inizia con lo spettacolo The Decision (2013) e prosegue con l’ultimo Marmo.
Da subito, grazie al teatro, sono stato portato a pensare che la musica si potesse suonare in qualsiasi situazione. Avvertivo la necessità di fare uscire la musica dai suoi luoghi deputati e grazie al teatro sono riuscito a mettere in pratica tale idea. A teatro si suona con pianoforti in equilibrio, ci si esercita contro quelle che solitamente sono le “fisime dei musicisti”. Solitamente la formazione classica e accademica ci abitua a pensare che certe azioni non siano permesse, ci abituiamo per esempio a determinate posture della mano. Io sono invece convinto che la vera espressività porti con sé i suoi gesti... per arrivare a una vera espressività la creazione di nuovi gesti è necessaria. Suonare è partecipare.
La mia dimensione in Marmo è simile a quella di un attore e infatti sono un musicista di “frammenti”. Anche a livello musicale si tratta di una partitura di frammenti, c’è un canovaccio ma esiste anche un margine di improvvisazione. L’iniziativa in questo caso è più in mano a Giacomo Piermatti, il violoncellista, il suo è un ruolo di creazione di atmosfera, come un sound design. Il piano ha suoni più netti, non a caso io partecipo grattando le corde, sono una figura esausta ma a un certo punto si dice La musica sola dirà che l’Occidente non s’è sprecato invano… in effetti ho sempre pensato alla musica come a una sorta di architettura invisibile. Qualcosa che non si tocca, ma che orienta tutto.
Rituel è un lavoro di qualche anno fa e deriva dalla mia passione per la musica indiana. A un certo punto del mio percorso mi sono appassionato alla musica indiana, ho iniziato a suonare il sitar e stavo per lasciare il pianoforte, ho anche fondato un gruppo chiamato “Monsoon mood”. Io ho una formazione legata anche alle arti visive e alla pittura, ho frequentato l’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna. Da sempre ho pensato alla possibilità che la musica potesse occupare il centro di un discorso ampio, composto da più elementi linguistici. Con Felice Nittolo, mosaicista ravennate, ho messo a punto una forma di concerto per pianoforte videopreparato. Posizioniamo un mosaico sulle corde del pianoforte, la vibrazione e la melodia producono una scomposizione della figura originaria mentre una videocamera fissa riprende le corde rimandando l’immagine nell’ambiente. (Scomposizione musiva è il titolo del lavoro). Il pianoforte preparato, per quanto ne sia riconosciuta la parternità a John Cage, in realtà è stato usato per primo da Erik Satie, che pose dei fogli sulle corde. Sarà poi Cage a determinarne una diffusione concreta, in qualche modo istituzionalizzando la preparazione del pianoforte.
Il concerto di oggi deriva da una performance musicale, La follia, creata con l’artista Vanni Cuoghi. Con due telecamere fisse dentro al pianoforte avevamo ricreato una sorta di battaglia in miniatura, un concerto con in cavalieri che entrano in scena, combattono, muoiono, tutto dentro al pianoforte e ripreso in video. Questa sera però sarà “pura musica”, lo eseguo con il pianoforte verticale di Masque. Pensando alla “pura musica” mi torna alla mente la questione della definizione del pianista contemporaneo, come qualcuno a volte mi chiama. Spesso questa mia tensione viene letta come un aggiungere o un togliere, a seconda di come la si vede.
La relazione fra musica e teatro è sempre un connubio, nel teatro individuo un tessuto di fondo al quale io collego la musica. Va detto che il mio impianto è fondamentalmente melodico, non sono un compositore di concetto che studia a tavolino le strutture. La musica ovviamente può sopravvivere da sola, ma a teatro entra in relazione con tutte le altre arti. È come se la musica si ricreasse: le forme depositate in qualche modo riprendono sostanza dentro al teatro. È un colore reciproco. La musica colora la scena e l’azione ma allo stesso tempo viene investita dall’andamento drammatico. Più di tutto mi interessano le coincidenze, i punti di contatto che appaiono fortuiti. Un corpo che cade, terminando il suo arco di movimento si trova a coincidere con una nota che a sua volta incontra un mutamento della luce. Cerco quel preciso attimo, reso possibile solo dal teatro.
Dialoghi con gli artisti. Progetto a cura di Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi.
Intervista realizzata al Teatro Félix Guattari (Forlì), 29 ottobre 2016