Dal 28 al 31 ottobre 2016 si è svolta la XXIII edizione del festival Crisalide, a Forlì, ideato e curato da Masque Teatro. In quella occasione, attraverso il progetto "Conversazioni scritte", sono state prodotte una serie di interviste con gli artisti in programma con il desiderio di porsi, direttamente e non, una domanda di fondo: perché il teatro? Continuiamo a parlare del teatro, della danza, della performance in termini di differenza, misurando la possibilità che quello della scena sia uno spazio di alterità, di contraddizione, di rivelazione. Sono ipotesi ancora in campo? Attorno a questo spunto si sono costruite conversazioni che hanno ovviamente anche cercato di discutere delle poetiche dei singoli artisti, e degli spettacoli del festival.
Le interviste sono a cura di Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi.
Il suo percorso di interprete si articola in numerose collaborazioni. Come ha incontrato La Veronal?
Con La Veronal ci siamo prima di tutto trovati da un punto di vista del lavoro corporeo e fisico. Il loro coreografo Marcos Morau in questi anni ha messo a punto un linguaggio con caratteristiche immediatamente riconoscibili. Per lui è molto importante che lo spettatore veda il suo materiale e dica: questo è La Veronal. Portland è una sua creazione di cui io sono l’interprete e la creatrice di movimento. Come danzatrice ho una grande fluidità naturale, mentre il suo stile è più spezzato, gioca con le forme come un architetto. Anche per questo lui non mi ha mai passato del materiale specifico, un vocabolario di movimenti, ma mi ha trasmesso un sistema di lavoro generale a partire dal quale potevo improvvisare, giocare. Per me è stata una sfida: non credevo che Marcos sarebbe riuscito a trasformare il mio corpo lavorando da fuori, lui non è un danzatore, ha uno sguardo analitico sul corpo dell’interprete.
Che tipo di sfida ha rappresentato l’andamento narrativo di Portland?
Portland parte da un’idea che è andata chiarendosi durante il processo di lavoro. C’era bisogno di una persona completamente sola, in uno spazio vuoto con pochi elementi. Portland è un riferimento agli Stati Uniti ma anche al mondo, lo potrei descrivere come lo sguardo di una persona piccola che osserva il mondo attraverso una traccia audio. C’è un personaggio che sta solo sulla luna, un personaggio anche un po’ introspettivo – con qualche rimando a Chaplin – un personaggio che inizia ad ascoltare suoni carichi di violenza. Nonostante si trovi sulla luna e non possa fare nulla, diventa complice di qualcosa che sta succedendo da un’altra parte. Ci sono molti riferimenti alla cultura statunitense: la bandiera, l’inno, il casco, si vivono le esperienze che provengono dalla terra, come in un’osservazione di quello che siamo. A un certo punto si ascolta l’inno americano, parte il Chiaro di luna di Beethoven, inizia una scena di un film di un regista di Portland che racconta di un uomo che entra in una scuola e fa una strage sparando alle persone. Il personaggio si ritrova perso, non si rende conto di quello che sta succedendo, anche perché ascolta solo i suoni, non vede mai ciò che accade.
Come si trasmette al movimento la sostanza narrativa del personaggio?
Preciso che Marcos non ha davvero creato un personaggio, al contrario questo è emerso in modo naturale dal lavoro in sala. Morau non spiega come fare, la sua piuttosto è una guida attraverso la quale le cose appaiono, un invito a cercare elementi che appartengono all’interprete. Mi trovo a mio agio con la componente assurda del lavoro, cerco di vivere il personaggio ballandolo, rappresentandolo in movimento. Ci avviciniamo al teatro e al concetto di vivere nel tempo reale uno stato, anche se l’esecuzione tecnica del movimento ha una predominanza che non posso tralasciare.
Come è cambiato il suo movimento lavorando con coreografi così diversi, negli anni?
Ho lavorato molto con la compagnia Akram Khan, coreografo il cui movimento è fondato sul ritmo, è veloce, energetico. A suo dire il corpo è energia che si muove nello spazio, un approccio che apprezzo. La sua impostazione deve molto a tecniche asiatiche con elementi provenienti dalle arti marziali, nelle quali anche quando il corpo è immobile una tensione interna continua che far sì che nulla sia davvero fermo. Ho lavorato anche con il coreografo Hofesh Shechter, più attento all’improvvisazione, al movimento fluido e denso, una cifra che rimane nel corpo, difficile da estirpare. Come coreografa devo molto a entrambi. Da poco sto lavorando con una compagnia di circo contemporaneo nella quale il movimento è impastato con elementi provenienti dalla clownerie, dall’acrobatica, dalla recitazione di stampo teatrale. Qui sono l’unica danzatrice quindi mi sto interrogando su diverse sostanze di movimento. Come coreografa non insegno il movimento, preferisco indagare le specificità di un corpo. Ogni corpo ha un potenziale, conduco molti workshop in Europa dove incontro danzatori con corporature diverse, mi interessa cambiarli, trasformarli a partire dal loro corpo.
Si apprende un vocabolario coreografico oppure una sintassi, una direzione. In questa seconda opzione risiede l’autorialità dell’interprete?
Come nella scrittura di un libro, dove esiste un autore e tante figure cooperano alla sua realizzazione, anche nella danza gli interpreti dovrebbero muoversi con una certa libertà. Come interprete per me è molto importante avere una voce personale, credo sia fondamentale essere capaci di pensare. Come coreografa è quello che cerco. Ho iniziato da poco una nuova produzione con un quintetto di quattro danzatori e con un attore, usiamo la voce come teatralità. In quanto esseri umani ci siamo preclusi diverse possibilità separando nettamente le discipline.
Qualche considerazione sul lavorare oggi in Spagna. Quale situazione vivete?
Barcellona è sicuramente la realtà spagnola con più fervore culturale. Con la crisi in Catalogna c’è stata la tendenza a favorire le realtà culturali locali, limitando gli scambi con compagnie straniere, una strategia che ha permesso a molti di sopravvivere. Certamente nel Nordeuropa la situazione è migliore, anche se alcune nostre realtà sono delle eccellenze a livello internazionale e hanno contribuito a sostenere la danza catalana e spagnola diffondendola nel mondo, penso al Mercat de les flors o a Temporada Alta di Girona, grazie al cui lavoro si sono create quelle necessarie connessioni con la scena europea.
Dialoghi con gli artisti. Progetto a cura di Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi.
Intervista realizzata al Teatro Félix Guattari (Forlì), 31 ottobre 2016