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INTERVISTE > Conversazione con Peter Forman
Obludarium sembra quasi un salto nel tempo, un viaggio con e per la fantasia, una sorta di ottocentesco Circo Barnum filologicamente ricostruito, che ci catapulta nell’atmosfera sospesa di un mondo antico e ormai perduto, popolato di freaks, macchinerie e sorprese. Si tratta tuttavia di qualcosa cui voi stessi non avete potuto assistere, né vivere personalmente. Viene quindi spontaneo chiedersi a partire da quali fonti e soprattutto da quali esigenze è nata in voi la scelta di accedere a questo immaginario...

Non so se si tratta realmente della ricostruzione precisa di un mondo di freaks, anche se certamente alcuni dei nostri protagonisti di questo mondo fan parte. Su quest’argomento è possibile rintracciare molte e bellissime ispirazioni nei disegni, nei libri, nelle fiabe. Alcune sono persone realmente esistite, come per esempio la donna barbuta. In generale comunque, il nostro desiderio è stato quello di entrare a esplorare un universo di storie e luoghi eccezionali, in cui normalmente non siamo soliti addentrarci. Ciò è stato fatto insieme al nostro scenografo Matej, ricercando semplicemente di riprodurre le sensazioni e le atmosfere che scoprivamo sottese nelle illustrazioni come nei racconti e nelle testimonianze della gente. Il fatto poi di mettere insieme le persone, di costringere gli spettatori in questo spazio, è nato successivamente dall’intenzione di Matej di lavorare direttamente sul pubblico per renderlo davvero partecipe di quest’atmosfera.

La struttura alle volte ricorda persino una gabbia…

Sì, è vero, la gabbia non a caso impone allo spettatore un certo tipo di fruizione...

Tutto ciò quindi, ci sembra di capire, è partito anzitutto da una vostra personale curiosità…

Direi di sì, anche se è difficile fare un effettivo bilancio tra quello che ne è risultato e quello che volevamo. All’inizio pensavamo di mettere in scena un’opera classica. In passato abbiamo intrapreso varie esperienze sul classico da The Beauty and the beast a L’Opera Baroque. Secondo un tipo di studio molto tradizionale seguivamo fedelmente le storie, i cantanti, le didascalie e le indicazioni sceniche. Ora volevamo fare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. Inizialmente avevamo pensato a Shakespeare, poi l’idea è stata accantonata, quando, insieme a tutta la compagnia, abbiamo deciso di cominciare a girovagare per i piccoli paesi delle montagne e della campagna boema e morava, dove la gente non è abituata al teatro e il tipo di pubblico che si incontra non è certo quello di Praga. In questi luoghi nessuno, quindi, ci conosceva. Intraprendere quest’esperienza è stata la base, l’idea di partenza che ci ha permesso di lavorare sul pubblico ceco. Durante quest’esperienza ci siamo infatti accorti che molte delle persone che abbiamo conosciuto hanno paura del teatro, hanno proprio paura di entrarci. Non aveva a questo punto per noi più senso portarlo dove la gente è abituata a frequentarlo. Per fare questo abbiamo capito che costruire una tenda, o in definitiva la struttura del circo, faceva sì che le persone si aspettassero qualcosa di più semplice, di più leggero e così più vicino alla propria quotidianità, come può succedere per esempio in una chiesa. Nel momento però in cui crei questa condizione e li hai portati lì, tutti insieme, puoi permetterti di mostrare loro qualcosa che non si aspettavano, nel nostro caso semplicemente le cose che ci piace fare.

Tra queste ci è parso nascondersi anche un’attenzione particolare al rapporto tra illusione e messinscena. Dietro ai numeri che proponete c’è infatti un uso della macchineria molto frequente, che tuttavia sempre rivela chiaramente i segreti del congegno. Da bambini spesso ci capita che di fronte a un gioco, un carillion che abbiamo ammirato e ascoltato con stupore, vogliamo improvvisamente cercare di aprirlo, vedere che cosa c’è dentro quella magia finendo per incantarci anche dello stesso meccanismo. Qui accade un po’ lo stesso. Che senso ha per voi lavorare in questa direzione?

Esistono persone che la pensano in maniera opposta a riguardo e spesso mi capita di discuterne. Molti sostengono che se apri la macchina distruggi lo show. Ma a me piace quando accade, soprattutto quando viene fatto con semplicità, quando la gente è lì, pronta a coglierlo. Mi fido di questa intuizione, sia che il sistema sia complesso o immediato. Anche questo fa parte del discorso sul pubblico. Mettere la gente su un piano sopraelevato rispetto al palco, facendola salire sulle scale, tanto per cominciare, rende la visione più semplice e allo stesso tempo crea una grande tensione. È un po’ per esempio quello che succede con i burattini. Lì c’è sempre una persona dietro, c’è un uomo che dà loro vita. In questo caso abbiamo cercato di agire allo stesso modo, facendo sì che fossero gli spettatori in prima persona a partecipare al meccanismo. Questo spiega la ragione della luce a manovella, che il pubblico all'inizio deve azionare se vuole vedere qualcosa. È il calore pubblico che dà alle nostre figure l’energia che le fa muovere, proprio come con i burattini.

A proposito di burattini…Spesso si legge che il vostro lavoro molto attinge e deve a questa pratica, anche se in Obludarium a dire il vero non si può realmente parlare di teatro di figura…

Quello che è vero, rispetto anche alle informazioni che generalmente inseriscono nei programmi di sala, è il fatto che ho studiato alla Scuola nazionale di burattini della Repubblica Ceca, dove ho sperimentato il teatro di figura di strada e quello classico dei burattini a mano. La nostra prima opera è stata al Teatro Nazionale di Praga The Beauty and the beast. Abbiamo lavorato creando immagini e atmosfere, riempiendo lo spazio allo stesso modo che in Obludarium per costruire alla fine lo stesso tipo di spettacolo. Non faccio comunque una così gran differenza tra burattini o non burattini… Anche gli oggetti che trovate qui in scena per esempio (indica una bicicletta), possono essere chiamati burattini nel momento in cui li metti su un palco, qualcuno ci sale, la fa muovere e la luce si accende.
Non ci sono schemi così fissi. All’inizio pensavamo addirittura di utilizzare in Obludarium degli animali veri… un cavallo, un mulo, una scimmia… ma poi ogni giorno devi dargli da mangiare e per noi sarebbe stato un problema. Così siamo giunti all’idea del cavallo di legno, cominciando a vedere in concreto come poteva funzionare, utilizzando le stesse tecniche di movimento del cavallo vero, partendo da studi molto antichi…sono le stesse del movimento delle gambe, è il medesimo meccanismo! Qui, come in tutto lo spettacolo del resto, è sempre un lavoro di precisione, basato sulla corrispondenza dei tempi e dei movimenti. Non posso definire la presenza reale di burattini ma in fondo è come se fossero parte della decorazione. Anche gli attori agiscono grosso modo come burattini. Le grandi maschere per esempio, ci hanno fornito il sistema per muovere il corpo. In questo senso esistono sempre per noi diverse fonti d’ispirazione.

Voi siete due figli d’arte, di un regista come Milos Forman vincitore di ben otto premi Oscar… è una domanda che vi avranno fatto in molti e sarete probabilmente stanchi di rispondere… eppure è per noi inevitabile chiederci se il suo lavoro ha esercitato delle influenze nella vostra visione teatrale…

Beh, in realtà io la vedo molto più semplicemente. Nostro padre è un regista, nostra madre un’attrice. Siamo cresciuti in un certo tipo d’ambiente e sarebbe stato piuttosto improbabile per noi finire a studiare ingegneria o chimica… Quando sei giovane studi, fai sport, vivi cercando di non pensare a niente fino a quando è possibile, poi arriva il momento in cui ti chiedi chi sei e che cosa vuoi fare per vivere. Io mi sono iscritto alla scuola d’arte drammatica a Praga, Matej ha cominciato a dipingere e si è iscritto a scenografia…Se mi sono dato al teatro è stato perché non ero così bravo nello sport tanto da poter gareggiare a livello agonistico… tutto qui.

Progetti futuri?

Beh, senza dubbio vogliamo lavorare ancora con Obludarium, che ci ha impegnati in un lavoro di preparazione molto lungo. Abbiamo tuttavia in progetto di tornare a lavorare sull’opera. Per questo siamo stati chiamati molte volte al teatro nazionale di Brno, la capitale della Moravia, in Repubblica Ceca la seconda città per importanza. Abbiamo accettato ma si farà più avanti, al momento per almeno un anno resteremo su Obludarium, su cui abbiamo speso e investito molto. Veniamo pur sempre da un paese molto piccolo e siamo stati finanziati da diverse coproduzioni estere, soprattutto da Rennes. Dobbiamo ammortizzare i costi. Ci tengo inoltre che questo spettacolo resti per un po’ una buona fonte di lavoro per i membri della nostra compagnia.

Qui al Festival Vie c’è una compagnia, il Teatrino Giullare, che lavora sulla messa in scena di testi dei maestri del Novecento, quali Beckett, Bernhard e Koltés, utilizzando attori-fantocci, agiti dai loro stessi corpi che puntano il dito su una profonda riflessione nonché rimessa in discussione del concetto di animato e inanimato. Vi facciamo ora questo esempio per chiedervi se riconoscete al di là dell’area ceca, sul piano internazionale, un’attenzione crescente rispetto a questo tipo di pratica che sentite possa porsi in relazione alla vostra.

Sì, sicuramente, ognuno in maniera diversa. La gente oggi è portata a mischiare insieme più elementi di vario tipo. Con la televisione, i film e le moderne tecnologie l’immaginazione si è aperta completamente. Sempre più cresce l’interesse verso le nuove tecnologie verso le quali il teatro, io credo, alle volte si relaziona con una buona dose di coerenza progettuale alle volte un po' meno. Insieme a questa tendenza è vero anche che esiste una ripresa del teatro di figura. In Belgio, in Spagna abbiamo assistito a spettacoli in cui le componenti erano sullo stesso livello, altri invece proponevano un lavoro più simile al nostro. Penso tuttavia che nell’ultimo periodo il teatro di figura stia effettivamente diventando una fonte d’ispirazione per molti.


di Lucia Cominoli , Andrea Porcelluzzi


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