36 Avenue George Mandel potrebbe essere una strada qualunque, chiunque potrebbe viverci, chiunque potrebbe camminarci in abito nero, scarpe con i tacchi e un impermeabile. Chiunque potrebbe passeggiarvi tamponandosi il viso con una veletta e guardandosi distrattamente allo specchio. Raimund Hoghe, coreografo e danzatore, sceglie questi simboli anonimi per far rivivere Maria Callas, in contrasto con la sua voce inconfondibile, sottofondo continuo dello spettacolo. Maria ne esce spezzata in due. La sua voce ritrae una donna artisticamente maestosa, ma Hoghe sulla scena ci parla di una donna fragile che cerca di essere amata. Donna che si muove lenta, quasi sonnambula, si nasconde sotto una coperta in un angolo della scena, con l’ombra di una civetteria lontana si cambia abiti e scarpe. Aspetta qualcuno, forse un sogno, forse un ricordo, forse semplicemente un estraneo con un fiore. In una spirale verso il basso quel che resta della Callas finisce esanime sotto una baracca di cartoni. In una continuità che forse vuole riavvicinare la bellezza di una diva a un anonimo reietto è presente la nota stonata che ricorda il diritto di essere brutti, fallibili. Non c’è narrazione, le azioni lente e ripetitive evocano suggestioni di immagini. Lo spettacolo non lascia spazio a giudizi sospesi, tra uscire dalla sala o lasciarsi sedurre dalla dignità, dalla bellezza essenziale e dalla forza di Hoghe in scena.
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