Emergono da un sottosuolo ameba e oscuro, risvegliati da una luce fioca che indica la strada. Sei corpi, a torso nudo, che tra versi e rumori primitivi si scrollano di dosso gli avanzi di terra e danzano a nuova vita. Risultato di un processo fisico in collaborazione con gli interpreti, Le Grand Dehors diventa girotondo di pensieri, nascondiglio di parole ponderate e scoperta di corpi plastici e ricettivi. Sono chiari i passaggi che la coreografa esplora, le tre fasi che la Huynh stessa suddivide in “sotterranea”, “solare”, e “della dispersione”, ma il risultato finale resta un pò intimista. I corpi degli interpreti sono forme scolpite, tremano, si allungano, cadono e si lasciano trascinare. Sono corpi in controtendenza, che non sviluppano il movimento ma lo annullano per trasformarlo, per lo più soli con se stessi, raramente in contatto con altri corpi. Una parete rotabile, bianca da un lato e dorata sul retro, è l’unico elemento sulla scena, rigorosamente essenziale come la Huynh predilige in tutti i suoi spettacoli. Oggetto di demarcazione, forse confine, forse varco.
L’occhio cerca i segni del corpo, che si riempie e si svuota, racconta la bellezza ma anche la violenza, danza i testi recitati da Stephanie Béghain, in un infinito vortice di montaggio e smontaggio. L’intenzione del gesto non si spinge al suo limite, ma si disperde prima, intravede il passaggio verso il fuori, lo percorre, ma non lo abita, lo abbandona perché questo è “il racconto per oggi”. La fine non sembra arrivare, la musica è troppo breve per abbandonarsi, la frenesia del movimento si consuma in se stessa. La Huynh esalta la lucidità dei corpi in scena, li libera dai codici e ne estrapola l’essenza. Corpi consapevoli, in una cornice musicale indipendente, che risuonano nello spazio, per un certo tempo, con il solo bisogno di stare lì.
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