Una teoria dice che un pezzo d’Africa all’origine dei tempi ha solcato il mare fino alla Romagna.
Il luogo d’incontro è stato il Teatro Storchi invaso dai ravennati Teatro delle Albe, trasformato in un fumoso Museum Historiae Ubuniversalis. In una dimensione a metà tra la festa e il rito Ubu Buur conferma la capacità di Marco Martinelli di fare del teatro un’urgenza. Il cammino nasce in Senegal nel villaggio di Diol Kadd, dove sotto la guida della compagnia italiana e di Mandaye N’Diaye, attore storico delle Albe, in scena come Padre Ubu, si è formato un gruppo di non-attori, al debutto in patria, e giovedì a Vie. Martinelli interviene sull’Ubu Re di Alfred Jarry traducendo liberamente il testo in dialetto romagnolo (che nello spettacolo si trasforma nell’antica lingua polacca), in wolof e in francese, mentre Padre Ubu recita in un romagnolo africanizzato. Ermanna Montanari, una bianca Madre Ubu, da tempo eccezionale maestra dell’impostazione vocale, dà vita a un personaggio sfaccettato in linea con le coralità dello spettacolo. L’ibridazione del linguaggio si fa metafora della vivacità del testo di Jarry, che non si può ingabbiare in una forma definitiva. La grande energia in scena resta però quella dei "Palotini": l’esercito di africani sfrutta un linguaggio fatto di ritmi di mani e piedi, percussioni in scena, musica e canti a metà tra il tribale e il coro da stadio. I Palotini, incontenibile tribù contemporanea, sventolano la bandiera sgualcita con la spirale-simbolo di Jarry e rompono le barriere scendendo in continuazione a recitare in platea. Lo spettacolo è un crescendo di energia che esplode incontenibile al momento degli applausi. Le convenzioni tra scena e sala si rompono tra danze e festeggiamenti che coinvolgono l’intera comunità Teatro.
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