Chi sceglie di interpretare un assolo di danza sa che metterà a nudo se stesso, che dovrà entrare in una dimensione ravvicinata con lo sguardo altrui. Antonella Bertoni, nel suo Try, appare molto cosciente della condizione scelta. Il suo corpo scheletrico si aggira nella nudità del palcoscenico alla ricerca di se stesso, di un’identità che forse si è smarrita o forse si vuole scarnificare. Nel silenzio, l’esile figura prende forma e appare pesante nel suo farsi portatore di più voci. Le parti sono segni di un insieme che si connota nel suo farsi, gli angoli spigolosi del corpo diventano i limiti fisici di un’esplorazione profonda del proprio universo. La danzatrice sembra tracciare un perimetro emotivo entro cui non nasconde la debolezza. Come morsa da insetto malefico, cerca di liberarsi della sofferenza, apre la pelle per accogliere l’aria e se ne serve per lasciarsi andare, come animale morente e poi risollevarsi, con guizzi e improvvisa energia, come chi ha perso la direzione ma non l’oblio di se stesso. L’ascolto si fa sempre più profondo e il corpo trasuda le sensazioni che lo muovono e lo conducono, che lo trascinano o lo distendono. C’è un certo erotismo nell’interpretazione della esile figura di Antonella e il suo essere, a tratti, si fa animalesco, mentre il corpo insofferente, annusa la terra con le parti meno probabili, si scontra con la durezza di quello che incontra. Poi arrivano le azioni di tutti i giorni, il morso di una mela, una pettinata ai lunghi capelli e il corpo si trasforma in strumento di gioco. Una figura femminile in un elegante abito nero si abbandona a un altro stato, in una seconda pelle forse, che non riconosce all’istante ma con al quale entra in relazione. Antonella Bertoni diventa quasi burattinaia di se stessa. L’invito finale è di continuare a guardare e cercare, a stare e affrontare, anche nell’incertezza e nell’errore.
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