Nel vostro lavoro utilizzate la camera oscura, strumento che può essere considerato tecnologicamente antiquato: siete alla ricerca di una dimensione maggiormente artigianale?
Direi di no, non necessariamente. La scelta di questo mezzo è fondata sulla volontà di cercare un nuovo linguaggio teatrale anche se siamo consapevoli di quanto sia difficile. La camera oscura è un dispositivo legato alle arti visive che ci ha permesso di creare un modo di rappresentare originale e completamente slegato dalla tecnologia contemporanea, e non di ritrovare una dimensione artigianale che si vada a contrapporre alla realtà tecnologica della videoproiezione. In definitiva, il progetto di Orthographe ha una motivazione più ontologica che ideologica; non penso che una ricerca dell'artigianalità in sé possa portare a scoperte o innovazioni particolari.
Come vi rapportate a un materiale del quale siete i creatori ma anche i primi spettatori?
Forse questo aspetto è quello più simile a uno spettacolo teatrale convenzionale. Il regista o gli attori, a seconda che siano impegnati o meno nelle prove, fungono in qualche modo da spettatori. Così non è nel cinema dove spesso c'è il lavoro di una persona sola che, per esempio, monta un girato. Io personalmente non recito, ma vedo quello che decido di montare, e poi nella fase di realizzazione insieme al gruppo vediamo il risultato, come in qualsiasi progetto spettacolare. Tra noi e il teatro convenzionale credo ci sia un’unica differenza fondamentale, la mancanza di contatto diretto con il pubblico.
Come cambia, quindi, il vostro rapporto con lo spettatore?
Come prima cosa penso a ciò che mi interessa mostrare, poi in un secondo tempo alla possibile reazione dello spettatore. Personalmente mi ritengo la prima cavia, non credo di avere una sensibilità diversa da chiunque altro. Sono convinto che non ci debba essere una forte componente intellettuale nel lavoro, cerco di arrivare al sensorio dello spettatore direttamente, saltando ogni concettualizzazione. Il progetto presentato alla Biennale di Venezia, per esempio, faceva riferimento a una iconografia ben precisa, desunta dalla letteratura artistica e scientifica. Quindi, anche senza venire esplicitato, era forte il richiamo alla figura femminile del primo cinema muto. Le immagini vanno in qualche modo “vissute”, senza nessuna particolare rielaborazione mentale alla ricerca di chissà quale senso.
Nel vostro lavoro vi siete ispirati a qualcuno o qualcosa in particolare?
L’utilizzo della camera oscura è legato a una storia personale di dispositivi ottici e di tecniche connesse alle arti visive. Quindi all'inizio, quando abbiamo cominciato, non era chiaro se fosse venuto fuori uno spettacolo teatrale o qualcosa che era più vicino alle arti visive...Fortunatamente abbiamo partecipato al bando di concorso della Biennale di Venezia e il teatro è entrato di necessità a far parte del nostro percorso.
In Tentativi di volo ci sono dei rimandi alla pittura di Goya. Perché questa scelta?
Ho sempre avuto una passione particolare per questo pittore ma non è stato lo spunto del lavoro. Semplicemente avevo bene in mente le sue pitture nere e le incisioni, ed è da lì che ho preso il tema della sospensione, del galleggiamento nell'aria; quella dimensione onirica che non si rifà ad un elemento reale ma esplicitamente apre uno spiraglio verso il subconscio e il notturno; in questo senso Goya è stato molto utile. Gli acquerelli sull'avorio molto informali, a metà tra le pitture nere e le incisioni, sono elementi che hanno contribuito a creare le immagini, però non è un lavoro incentrato sull’opera di Goya.
Che tipo di esperienze avete fatto prima di arrivare alla fondazione di Orthographe?
Personalmente non ho fatto un percorso artistico canonico. Angela Longo ha fatto alcuni laboratori con la non-scuola di Marco Martinelli e il Teatro delle Albe durante le superiori. Entrambi siamo laureati in storia contemporanea. Io, invece, non ho esperienze in ambito teatrale ma sono sempre stato appassionato di arti visive e fotografia. Prima di questi lavori avevo fatto diverse installazioni con alcuni attori, e nel tempo ho sempre preferito la fotografia all’accattivante fascino della videoproiezione. Tutto è arrivato in modo piuttosto casuale, anche la fondazione di Orthographe.
Il progetto è stata un’operazione piuttosto velleitaria, non è stato pensato a tavolino. È nato come esperimento per e sulla camera oscura, perché ci sembrava che questo mezzo avesse grandi potenzialità. Fin dall’inizio, infatti, ci siamo resi conto che avremo potuto creare, con questo strumento, un tipo di visione diversa da quella a cui siamo normalmente abituati. Da qui la ricerca verso la dimensione onirica, il buio, l’immagine….