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INTERVISTE > Hoghe, lo spazio non esiste
Da dove nasce 36, Avenue Georges Mandel?
Ho sempre amato molto la voce di Maria Callas e in alcuni miei spettacoli avevo già usato le arie cantate da lei. Per caso, trovandomi all’Opera di Parigi, ho trovato una cartolina con l’indirizzo di quella che è stata l’ultima abitazione della cantante. È in questo appartamento parigino che è morta. Nello spettacolo non mostro la sua vita in modo didascalico, ma cerco di ricreare il suo spirito, di parlare della sua solitudine. Per questo non ho utilizzato solo il canto, ma anche alcuni testi.

Ci sono elementi in comune con le sue produzioni precedenti?
Gli elementi costanti nei miei spettacoli sono la musica e il movimento. Anche in questo caso sono gli strumenti che prediligo. La musica ha un grande potere, riesce ad emozionare tutti. Ho voluto suscitare il ricordo del personaggio di Maria Callas attraverso la sua voce, le sue centinaia di voci. Interpreto quelli che erano i suoi gesti, i suoi movimenti, riconoscibili e perfettamente studiati. Maria Callas era molto attenta al movimento e ai preziosi consigli di Luchino Visconti, che lavorò molto con lei. Lei diceva che la musica la faceva muovere e la stessa cosa vale per me. Seguo quello che mi dice di fare, non creo nulla.


Come ha selezionato la musica e come ci racconta la storia di Maria Callas?
Ho scelto le arie meno conosciute, ma che lei amava molto. Ho evitato ad esempio la musica di Puccini che a lei non piaceva e il personaggio di Carmen che la Callas non apprezzava per nulla. Prediligo invece molte arie francesi, particolarmente soffici. Attraverso questa musica la ritraggo, ne metto in luce gli aspetti meno conosciuti. Non intendo stravolgere l’immaginario collettivo sul suo conto, ma quello che più mi interessa è riportare fedelmente i suoi stati d’animo, la sua verità. Così, tra le altre citazioni, riporto quella di cui più era consapevole verso la fine della sua vita, ossia di “essere inutile”. Non aveva soldi, né amori e la voce non era più quella di un tempo. Non rimaneva molto. Anche se è triste, è ciò che voglio raccontare. La fine però è diversa, il mio corpo non è a terra, arriva qualcun altro.


Le scene dei suoi spettacoli sono generalmente piuttosto minimali, anche se spesso utilizza degli oggetti. Come ha scelto di lavorare in 36, Avenue Georges Mandel?
Utilizzo solo alcuni vestiti, che sono praticamente gli unici oggetti in scena, con cui gioco, mi travesto, cambio l’atmosfera. All’inizio sono vestito tutto di nero, poi indosso un impermeabile da donna, porto spesso i tacchi. Tutto è sul pavimento fin dall’inizio. Quando Maria Callas fu ritrovata morta in quell’appartamento, il suo corpo era a terra e c’erano molte cose sul pavimento.


Lo spazio è un altro elemento molto importante per lei..
Lo spazio non esiste di per sé. Lo spazio è creare un’atmosfera perché le cose succedano. Per questo, non creo nulla, ma lascio che le cose accadano. Amo le scatole nere, le scene minimali, lo “spazio vuoto” di Peter Brook. Sono rimasto influenzato dalla cultura giapponese, dai film soprattutto e mi interessa capire come lo spazio può cambiare se utilizzato in maniera diversa.


Lei è stato drammaturgo di Pina Bausch per dieci anni. Il suo lavoro è stato influenzato dalla coreografa del teatro-danza tedesco?
Quando lavoravo al Tanztheater Wuppertal erano gli anni Ottanta e il teatro di Pina era molto diverso da adesso. Anche il suo corpo e il suo modo di lavorare sono cambiati col tempo. Quello che ho apprezzato di più in lei è stata l’onestà, l’accettare un corpo diverso come il mio. Allora non c’era molta danza e la delicatezza nel movimento era consono alla sua poetica. Nei lavori di Pina c’è sempre il sentimento del passato e in alcuni casi i suoi spettacoli possono disturbare.
Nello stesso periodo in cui mi trovavo a Wuppertal il Butoh stava arrivando in Europa. Ne sono rimasto molto colpito. Ho incontrato Kazuo Ohno diverse volte e ricordo che anche a lui piaceva molto la voce della Callas. Una volta, quando andai a trovarlo era già molto malato. Le arie della Callas tuttavia sembravano rianimarlo, come quando era stato sul palcoscenico. I suoi movimenti erano minimi, il suo corpo danzava ancora.


Dopo questa esperienza, come è arrivato a scegliere di salire sul palcoscenico e di lavorare da solista?
Prima di lavorare con Pina Bausch ero un giornalista. Ho sempre scritto delle storie, ritratto le persone e la loro vita. Avevo voglia di raccontare anche di me, del momento storico in cui avevo vissuto, del mio corpo diverso. Ricordo le parole di Pier Paolo Pasolini, che incoraggiava a lasciare andare i propri corpi in battaglia, e fui così spinto a salire sul palcoscenico. Il primo spettacolo era molto scuro, con una scena completamente nera. Non è stato per niente facile, poi mi sono lasciato trasportare e le cose sono un po’ cambiate.


Le sue produzioni sono apprezzate da pubblico e critica. Questo la incoraggia?
Certamente. Il pubblico mi ha incoraggiato molto. Ammetto di non essere particolarmente attento ai desideri degli spettatori, rifiuto tutto quello che è commerciale e faccio quello che devo fare. È fondamentale però sapere che il proprio lavoro sia apprezzato.


Ha progetti per il futuro?
Attualmente sono in produzione. Debutto a Parigi, alla fine di novembre, al Festival d’Automne con il nuovo spettacolo Bolero Variations. È la musica di Ravel, ma anche del Sud America e dei Vespri Siciliani di Verdi.


di Eliana Amadio
 

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