Come è avvenuto il processo di costruzione coreografica e la relazione con la drammaturgia?
Il progetto coreografico è iniziato tre anni fa. Il principio è stato quello di lavorare sulla ‘danza perduta’, su tutto il materiale corporeo che spesso si perde in una composizione. Con l’improvvisazione si utilizzano molti movimenti che alla fine non rientrano nel progetto finale. Non si tratta di un sentimento nostalgico nei confronti di qualcosa che si è abbandonato, ma piuttosto di far risuonare qualcosa dentro di noi. Matthieu Doze, che è assistente alla regia in questa produzione, conosce molti miei pezzi precedenti e si ricordava in particolare di una sequenza di nove minuti che avevo realizzato nel 2000 in risposta a un altro danzatore. Da lì siamo partiti, con una matrice comune, che si chiama “la matrice de Brest”, a cui ogni interprete ha fatto riferimento dal proprio punto di vista. La commessa iniziale era di focalizzarsi sulla matrice dal punto di vista fisico, cercare la propria interpretazione utilizzando lo stesso principio di uno zoom fotografico. Ho lavorato molto con ogni singolo danzatore affinché ognuno potesse trovare il proprio percorso, il più vero possibile. A partire dal materiale del passato abbiamo costruito la nostra danza di oggi, quella danza che non si accontenta della ricerca in studio ma riceve le informazioni dal mondo, riceve la bellezza o la violenza della vita, le dissemina sul palcoscenico. È importante che si mostri eterogeneità, sia nei corpi che nei testi. Inoltre mi interessa molto che lo spettatore possa essere parte attiva nel processo di visione e per questo, nella costruzione generale del pezzo, ho cercato di lasciare all’osservatore la possibilità di operare il montaggio. Esattamente come avviene nel teatro giapponese di marionette, il bunraku, in cui ogni marionetta è mossa da tre manipolatori, per cui intervengono diverse voci e diverse vicende e lo spettatore costruisce la sua storia. La dimensione drammaturgica di Le Grand Dehors è ‘meravigliosa’, come quella appunto dei racconti, ma assorbe gli avvenimenti del mondo. Laddove si toccano delle questioni morali, comunque, non sono mai esplicitate chiaramente, permane una dimensione celata e poetica.
Nelle sue precedenti produzioni sembra aver prediletto una scenografia molto minimale. Ha mantenuto la stessa prerogativa anche in questa produzione?
In generale amo le cose depurate. Non so se questo deriva dai miei studi filosofici e quanta influenza abbia avuto il periodo passato in Giappone o il contatto con la cultura orientale. Il concetto è “less is more”. Preferisco lavorare sull’economia, sull’eliminazione delle cose superflue, sia che si tratti di improvvisazione o di spettacolo. Per questo le mie scene sono particolarmente essenziali. I segni che decido di utilizzare, d’altra parte, hanno molta importanza e sono assolutamente necessari.
Lei è stata una rappresentante della corrente francese degli anni Novanta definita come ‘non-danza’. Si ritrova in questa categoria? Cosa porta ancora con sé di quel periodo?
La ‘non-danza’ è stata una definizione giornalistica, non un movimento reale di danzatori. Ritengo abbastanza pericoloso incorniciare una parte della storia della danza francese come un ambito in cui il corpo del danzatore si annulla. Il movimento è sempre stato molto presente in tutte le mie coreografie. Mi sono posta le domande e ho guardato cosa succedeva nel corpo, cosa si produceva. Il mio primo assolo era nero, non si vedeva molto, forse questa idea viene da lì. I miei genitori artistici sono stati piuttosto gli esponenti della Judson Church americana degli anni sessanta. Quel minimalismo, quella fedeltà nel pulire il corpo e il movimento per parlare delle questioni del mondo, mi appartengono molto. Le Grand Dehors è un lavoro che continua a esplorare le possibilità della danza, scavando in profondità, alla ricerca del senso più intrinseco delle cose. Non si sviluppa in orizzontale, ma in direzione verticale, verso il basso, verso ciò che è sotterraneo.