Prima dell’ultima replica del suo C’est du Chinois, presentato al Teatro delle Passioni all’interno del Vie scena contemporanea Festival, incontriamo la regista ungherese Edit Kaldor per parlare del suo lavoro.
Qual è stata la genesi dello spettacolo?
È una lunga storia: ci ho pensato all’incirca per otto anni. L’idea di base del progetto era fondamentalmente autobiografica: anche se sono nata in Ungheria ho vissuto in vari paesi, questo mi ha consentito di conoscere molte lingue oltre l’ungherese, che già ha delle caratteristiche specifiche ed è molto difficile da imparare. Avevo in mente di proporre uno spettacolo che facesse percepire al pubblico la sensazione di spaesamento che si prova quando si è immersi in un mondo, in una lingua del tutto stranieri. Quando a dodici anni mi sono trasferita in America non conoscevo l’inglese e spesso andavo in giro riuscendo a capire solo qualche parola. In quella situazione pochi vocaboli, irrilevanti per chi si muove nella propria lingua, diventano improvvisamente molto importanti: la relazione semantica con le cose diventa davvero profonda, essenziale, tanto da cambiare il proprio modo di relazionarsi con gli oggetti. È una sensazione molto precisa che probabilmente tutti hanno provato, come una visione del mondo esterno in cui c’è molto di più di te stesso. Il continuo girovagare in differenti paesi mi ha portato anche a incontrare diverse classi sociali, molti ambienti e modi di essere che ho dovuto imparare a capire; in ognuno di essi ciascuno è convinto del proprio modo di pensare e questo porta loro ad interpretare le cose in modo già stabilito. Perciò volevo creare un’esperienza non solo di carattere semantico, ma che coinvolgesse l’osservatore portandolo a uscire dalla sua realtà, lo invitasse a creare una nuova visione inseguendo alcune parole. Può apparire un discorso teorico ma in realtà è tutto molto concreto: all’inizio gli unici vocaboli riconoscibili sono “tofu” e “kung fu”, il resto consiste semplicemente nell’imparare le parole che vengono insegnate, anche solo attraverso questa “lezione” lentamente le persone sul palco diventano sempre più familiari, finché non si arriva a comprenderle in maniera molto intima. Certamente le differenze culturali restano, ma in qualche modo penso che possano essere messe da parte facilmente gettando un semplice sguardo sulla loro vita quotidiana.
Com’è nata, invece, la collaborazione con gli attori?
Sono andata in Cina dove ho incontrato e intervistato moltissime persone di ogni età, uomini e donne, membri di una stessa famiglia. Così ho scoperto le differenze generazionali e ho iniziato a immaginare ai possibili caratteri dei personaggi. Ovviamente non volevo fare uno spettacolo sulla Cina, ma indagare l’immigrazione nel suo stato mentale. Per le audizioni sono tornata in Olanda e ho scelto la combinazione di attori che pensavo potesse reggere le dinamiche familiari senza troppi contrasti. Infine abbiamo costruito lo spettacolo su di loro, sulle loro vite o attitudini, sulle loro particolarità; in questo ci ha aiutato il fatto che non fossero attori professionisti (solo uno lavora come attore in Olanda).
Passando attraverso l’insegnamento del mandarino, questa tensione verso la comprensione intima è rigidamente scandita dai ritmi dell’apprendimento, da un crescendo di complessità linguistica. Nel processo creativo, in che misura il dover fare i conti con una lingua estranea a te e al pubblico ti ha ostacolata, in che misura ti ha guidata?
Per la realizzazione, ovviamente, non essendo cinese, ho dovuto studiare e lavorare a lungo. Il rapporto tra creazione e lingua è stato un lento processo organico e la semplicità del mandarino è stata funzionale: mancano le coniugazioni dei verbi, non c’è plurale (tanto che in Olanda si insegna in molte scuole elementari). L’ho scritto insieme a Xi Zeng, linguista e insegnante, che inizialmente era il sesto membro della famiglia. Ho lavorato lungamente con lei: lo spettacolo può apparire semplice, ma in realtà ha richiesto moltissimo impegno. Ci sono solo poche parole che ciascuno può ricordare e l’unico modo per aiutare in fretta la memoria è ripeterle. A me non interessa interagire col pubblico, ma in questo caso se non ci fosse tale relazione non ci sarebbe alcuna possibilità di capire i vocaboli o ricordarli: semplicemente lo spettacolo non funzionerebbe. Abbiamo studiato molto, anche attraverso degli esperimenti o test da compilare, per capire quanto sia corta la memoria e fino a che punto la ripetizione aiuti. La scrittura poteva compiersi solo all’interno di queste restrizioni: replicando spesso le stesse parole, lasciando i tempi per la comprensione e memorizzazione. L’obiettivo non far comprendere tutto a tutti, ma fare in modo si possa seguire lo spettacolo senza sapere il cinese.
Lo spettacolo è cambiato dalla prima?
Anche la notte scorsa ci sono stati molti cambiamenti, soprattutto seguendo l’attenzione degli spettatori. Il testo non è improvvisato, ma molte cose lo sono, come quello che si dicono gli attori tra loro in cinese o quello che fanno. Lo spettacolo ne ha bisogno perché, anche se nel tempo è diventato tutto molto automatico, si sviluppa molto organicamente fondandosi ogni sera il ritmo sull’attenzione della platea. Certamente non è da vedere alle undici di sera, così come non si può iniziare scuola a quell’ora, perché è uno spettacolo sulla necessità, sull’esperienza dell’apprendimento. Desidero si crei un equilibrio nel lavoro d’insieme anche col pubblico, per questo occorre che esso sia disposto a concentrarsi, a ricevere, ad attivarsi.
Veniamo al rapporto tra aspetti finzionali e non-finzionali: gli attori si presentano come famiglia emigrata in Italia, ma non lo sono. D’altro canto ciò che agiscono sul palco sembra essere totalmente vero, senza alcuna costruzione alle spalle, e per di più alcuni aspetti della loro reale personalità sono stati usati per disegnare i personaggi.
Personalmente non mi prendo cura di quest’aspetto. Non è importante che il pubblico pensi davvero che quella sia una famiglia: in fin dei conti ciascuno di noi fa finta, con la propria, di farne parte. La cosa che mi piace, però, è non mostrare le persone sul palco come attori: chi osserva non deve avere la certezza che quello sia il loro lavoro, che loro ne traggano profitto, che hanno imparato a memoria quelle parole, parole scritte da qualcuno, che poi andranno a casa e che le ripeteranno un altro giorno in qualche altro teatro. Devono esserci alcune cose, alcune possibilità non prese in considerazione dal pubblico. Questa non conoscenza di ciò che può essere reale e di ciò che può non esserlo penso sia interessante, perché impedisce allo spettatore di mettersi in una posizione di comfort, di rilassarsi, di fare del teatro un semplice divertimento, un modo per riempire il suo pomeriggio. L’idea è che ciascuno possa sentire qualcosa di se stesso come persona anche come membro del pubblico: per questo non deve aver chiaro se gli attori sappiano o meno quello che faranno l’istante successivo, non deve star al sicuro pensando che comunque vada tutto andrà bene perché è già tutto prestabilito. Sotto questo punto di vista mi riconosco in ciò che Lehmann ha scritto nel suo Teatro post-drammatico: non è essenziale ingannare facendo passare per vero ciò che si mostra; è importante che ci sia qualcosa di nascosto, qualcosa che non può essere presentato lì sul palco, così che non possano crearsi certezze. Io cerco sempre di creare questa misura intermedia: per metà reale per metà inganno. In ogni caso, non appena qualcuno sale su quel palco e si presenta, in qualsiasi modo lo faccia, sarà sempre posticcio, finto: nessuno lo farebbe naturalmente, spontaneamente nella sua vita. Per di più la situazione in platea è la stessa: nessuno rimane se stesso se circondato da tutte quelle persone più o meno sconosciute. Tutto è già finto, è solo una questione di gradi di realtà.
Trovo più interessante evitare che chi è sulla scena mostri di sapere (o di saper fare) di più di chi è seduto a guardare: nessuna eccezionalità o spettacolarità deve giustificare l’osservazione passiva del pubblico; al contrario, l’attore deve compiere delle azioni che attivino lo spettatore, dandogli da pensare.
C’est du Chinois sembra basarsi proprio sul “nascosto”, sul “non-detto” di cui parli: in evidenza c’è esclusivamente la lezione di mandarino, ma proprio attraverso essa è il pubblico a ricostruire tutto ciò che riguarda i personaggi, al di là di ciò che mostrano. Come se il linguaggio fosse semplicemente uno strumento indiretto per raccontare la propria storia evitando ogni patetismo.
Lo spettacolo non riguarda certamente il linguaggio: è una lezione di lingua, una lezione di mandarino, ma parla dell'immigrazione, del potere e della violenza. Ogni cittadino si aspetta che chiunque decida di vivere nel suo stesso stato impari la lingua del luogo, mentre probabilmente chi emigra ha solo aspettative su un futuro più solido, o su una maggiore consapevolezza della situazione del mondo. Ciò che volevo fare è mettere in discussionequeste assunzioni e ogni supposizione che nasce dall’ignoranza. Inizialmente i pregiudizi restano: i cinesi sul palco somigliano a quelli del ristorante cinese più vicino, con i loro vestiti economici e il loro modo di fare; lentamente però si va oltre e si arriva a comprendere cosa signifchi essere immigrati. Si sviluppa la fatica del doversi reinventare in un posto dove non si ha nulla, dove si è soltanto ciò che si dice di essere, in conflitto col far parte di una famiglia che sa chi sei nel profondo. Presentandosi l’attore parla di sé, del suo lavoro, dei DVD che vende, con entusiasmo, pur sapendo la scarsa qualità del suo prodotto, e lo può fare solo finché la famiglia non renderà esplicita la pressione, dicendo a tutti che quei DVD sono spazzatura. La cosa più difficile è connotare la propria identità in un momento in cui l'unica cosa che vorresti fare è raccontare la tua storia, senza nessuno a cui raccontarla, senza nessuno che ti capisca. Si parla dell’immigrazione come sensazione: non a livello globale, ma sul piano individuale.
All'inizio pensavo di dover creare una storia davvero interessante, nascondendo un segreto, affinché la fatica del pubblico fosse in qualche modo ricompensata, ma sarebbe stato un meccanismo sbagliato: la storia doveva essere molto riconoscibile affinché pur non capendo la lingua fosse possibile dirsi alcune cose. L’identificabilità mi ha portato in qualche modo a ricorrere a qualche cliché, ma nonostante questo ho cercato di mantenere la particolarità delle persone coinvolte per riuscire a incontrare davvero qualcuno, puntando all'intimo pur nell'impossibilità della comprensione.