Orthographe si forma a Ravenna nel 2005, quando lo loro opera prima Orthographe de la physionomie en mouvement viene selezionata per la veneziana Biennale Teatro diretta da Romeo Castellucci. Come il successivo Tentativi di Volo, siamo di fronte a una scena fantasmatica, in cui spettatori e attori abitano un dispositivo che funziona come camera ottica: gli uni ad assistere a ombratili figurazioni e movimenti proiettati, gli altri dietro allo schermo a produrli in tempo reale.
Controllo Remoto, del 2009, ha come centro la rappresentazione della guerra: pose di plotoni, visioni di trincee, mirini puntati su paesaggi grigi proiettati su velo diafano che sfrangia i contorni di ciò che vediamo. Un automa a forma di triangolo rifrange un laser, fino all'entrata di un alce gonfiabile, come immersi nel luna park di un odierno videogame di battaglia.
Colpisce che un percorso così centrato sulla visione e sulla sua messa in scena, in cui lo spettatore poteva “solo” guardare, esploda nelle tante stanze di Una settimana di bontà _ stagione 1: ora ci si deve muovere attraverso tante “stazioni performative” abitate da presenze prelevate dall'odierna tele-realtà: alcuni tifosi che scrutano una registrazione della semifinale dei mondiali come se stesse accadendo in diretta, una stanza per la chat-roulette, un camerino con alla parete piccoli schermi su cui scorrono provini di ballerine, il tutto introdotto dal gioco da tavola Cobain Affaire$$$. Ci si siede e si deve indagare sulla morte della rockstar, vendendo i propri indizi all'editore di turno.
Abbiamo puntato molto sullo spettatore, senza il pubblico questo è uno spettacolo improbabile e improvabile. C'è una dimensione di gioco che richiede la partecipazione spontanea dello spettatore, il pubblico diventa giocatore e quindi crea contenuti attraverso il formato del gioco da tavola. Si richiede una fruizione più simile a quella di un’esibizione, di una mostra, ma con un’altra consapevolezza: perché anche nelle mostre andiamo a fare finta. Per noi deve essere una specie di navigazione libera attraverso universi paralleli o comunque stanze, nel senso polisemantico del termine. Si può decidere quale sia il tempo di fruizione secondo le proprie aspettative e secondo il proprio interesse.
Abbiamo avvertito l'esigenza di un contatto diretto col pubblico, che diventa parte integrante dell'opera, come avveniva anche in ¡thump flash! fatto a Santarcangelo 41. Il pubblico diventa strettamente necessario: se entra una sola persona o due lo spettacolo non è possibile, mentre uno spettacolo per camera ottica poteva vederselo anche una persona da sola. Oltre a sperimentare qualcosa di per noi poco praticato, ci interessa l'idea di comunità nella società di oggi. Stiamo parlando di qualcosa che è sempre immateriale, le forme di aggregazione in rete esistono solo virtualmente. Nei fatti, ogni comunità oggi non esiste, o almeno potrebbe non esistere.
Ciò che colpisce in questi frammenti di società dello spettacolo è lo spazio che lasciate al fruitore, un luogo vuoto fra adesione ai meccanismi di intrattenimento che divertono davvero (perchè negarlo!) e presa di coscienza che provoca distanza. Si sale nella sala della semifinale dei mondiali, si sta insieme a tre tifosi che non fanno che riguardarsi un accadimento avvenuto anni fa. Sono dei disgraziati perduti nei meccanismi della rappresentazione, non ne possono più fare a meno, come una droga, al punto di guardare una registrazione all'infinito. Ma quei disgraziati siamo anche noi: vi confesso che ascoltare Caressa e Bergomi che urlano «andiamo a Berlino» non mi ha lasciato indifferente. Riguardare Il gol di Grosso e di Del Piero oggi: poco da fare, quel pizzicorino al petto misto a orgoglio nazionale arriva. Voi state dalla parte di quei tifosi, mi pare di capire, anche se quando si esce siamo spinti a ripensare alle emozioni rivissute. Anche se un distacco arriva, non diviene mai altezzoso, il che è non è poco...
Una settimana di bontà_ stagione 1 si pone in parte come mimesi dell’oggetto di ricerca, che sono i nuovi media e le nuove forme di socialità. Abbiamo prelevato anche in maniera casuale dei frammenti di web, concentrando l'attenzione sulle forme di socialità odierne, dove non c’è più un rapporto bilaterale, plurilaterale o comunque concreto ma tutto avviene attraverso una specie di messinscena dei rapporti sociali. La telecamera di sorveglianza è diventata l’occhio stesso dello spettatore: nessuno è più vittima dei mezzi di comunicazione o dei mezzi di sorveglianza. Noi tutti siamo diventati un mezzo di sorveglianza quasi autocompiacente, ci piace spiare la gente e ci piace anche che la gente ci spii. Tutto lo spettacolo è giocato su questa linea sottile che non deve mai diventare autocompiacimento totale nell’ostentazione del gesto, né voyeurismo totale da parte di uno spettatore che osserva in maniera distaccata...
…così il valore di differenza, rispetto alla marea mediatica, lo dobbiamo trovare da soli...
Rappresentiamo oggetti estremamente banali e quotidiani. Lo spettacolo si chiama Una settimana di bontà come l'opera di Ernst ma non è un tributo alla grafica di Max Ernst, è un tentativo di rifarsi alla freschezza del metodo del gesto surrealista come è stato prima di secolarizzarsi, di diventare retorica dell’avanguardia. Il surrealismo che usa oggetti estremamente quotidiani, dove il senso è leggermente spostato, manomesso, ma solo leggermente. Sono materiali totalmente riconoscibili ma c’è un intervento da parte del regista o dell’artista, che li manipola, che li rende qualcosa “di più”, che spinge riflettere su ciò che si guarda. Che poi siamo sempre noi, non è mai una denuncia di uno schifo, del male, il punto è stare dentro una cosa, esserne ben consapevoli ma capire anche come utilizzarla oppure come contaminarla, come metterla in scacco o sabotarla, un po' tutte queste cose insieme.
Dunque sei speranzoso? E il rischio che lo spettatore ricada dentro gli stessi meccanismi dai quali è quotidianamente sommerso, quasi per “eccesso di mimesi”? Insomma che chi viene allo spettacolo attraversi il tutto come in un luna park o si comporti sul serio come in un gioco da tavola esploso dove alla fine conta davvero andare dall’editore e scucirgli soldi senza avere trovato nulla...
Ma sai che ti dico, alla fine tutto lo spettacolo è una specie di grande gesto apotropaico, non si vuole poi andare tanto oltre. Oddio, non è del tutto vero nemmeno questo. Non vogliamo cambiare qualcosa nella società, questo è certo, eppure qualcosa può succedere per chi partecipa, nello spirito critico dello spettatore. Senz’altro si usa la peggior retorica, però è una retorica non verbosa. Trovo impossibile affrontare questi temi a teatro attraverso l’uso della parola, di un discorso. Si rischia di essere più pesanti dell’oggetto di denuncia stesso, o non efficaci, perché si finisce per voler convincere chi è già d'accordo. Penso che nella nostra ipotesi si abbia l'opportunità di coinvolgere qualcuno che non affermerebbe mai certe cose, una volta uscito. Alla fine è un tentativo di creare una società istantanea, ma sempre in termini artistici, non politici o rivoluzionari, per il breve tempo in cui si può esistere all’interno della performance.
e quindi, continuando nel ragionamento metaforico: noi siamo in un gioco di ruolo e...
No! Siamo in un gioco da tavola, in un party game, non in un gioco di ruolo. Nel gioco di ruolo assumi un’altra personalità, nel party game fai finta di essere un personaggio precostituito. Il gioco di ruolo è più vicino alla schizofrenia, il party game a Eichmann...
Grazie per la correzione. Dicevo, siamo in un gioco da tavola, che fra l'altro è il primo atto dello spettacolo. Finita la partita, ci si aggira nelle stanze come se il gioco continuasse e si allargasse. Si deve trovare un assassino, un colpevole fra le paccotiglie della società dello spettacolo, ma con l'incredibile opportunità di vederne svelati i meccanismi. Ogni stanza può essere letta come un progressivo percorso di svelamento. Dunque, che fare? Continuare la partita provando a intervenire sul meccanismo o abbandonare il gioco?
Non diamo sicuramente risposte, mai, con nessun spettacolo.
Va bene. E per quanto riguarda la “Stagione 1”?
È un uso improprio del lessico televisivo, dei formati. Sperando di continuare e quindi serializzare il lavoro abbiamo messo stagione 1 – magari poi rimane stagione 1 e basta, come episodio pilota. Però non abbiamo voluto usare episodio pilota per non nasconderci dietro a uno studio, volevamo essere chiari: doveva essere uno spettacolo. Allora è come un po' se fosse l’episodio pilota di Twin Peaks, per puntare in alto... ma anche il “test” di un prodotto commerciale quale è il nostro gioco da tavola Cobain Affaire$$$: lo spettacolo ci serve per capire se funziona, il gioco lo vendiamo realmente (costa 50 euro, ndr) e tra qualche anno saremo ricchi e quindi dopo dovrai fare l’articolo su quegli stronzi degli Orthographe che usano i meccanismi e poi in realtà fanno i soldi e io ti risponderò come Alfred Hitchcock dicendoti: piangerò finché non vado in banca a ritirare i soldi.
Per pubblicizzare lo spettacolo abbiamo usato la produzione del un gioco sullo star system: lo star system dai divi del cinema si è inglobato la musica, fin lì siamo arrivati. I “divi” oggi comprendono anche la politica, ma non ci sembrava opportuno scendere fino a questo livello.
Effettivamente quella che tu chiami una “società istantanea” ha ripercussioni concrete sul mondo reale, si prolunga, come per chi vince al gioco: si può andare al bar del Teatro e chiedere consumazioni con dollari finti... (a meno che non accada che i due master del gioco ti indichino il bar sbagliato: tu entri, come ci è accaduto, in un bar pieno di loschi figuri che ti guardano storto, mentre ti sale il senso del ridicolo nel domandare al barista se quei soldi finti in quel bar valgano...)
Il nostro intento voleva essere una perpetuazione del senso anche dopo lo spettacolo, volevamo evitare di mettere degli elementi a caso. Per aspiranti ballerine che fanno i provini potevamo scegliere di inserire delle ragazze vere a sculettare, sarebbe stato un po' più “hard”. Moira Ricci invece ha creato questa parete con quattro video, in realtà è come se avesse creato una coreografia di casting, lei a queste persone ormai vuole anche bene, non le disprezza. Con Michele Mazzani (che se ne sta rinchiuso in una stanza ad applicarsi sul viso sagome di personaggi famosi opportunamente deturpate, ndr) fonderemo un ordine evangelico e chiederemo l’ufficializzazione da parte del Vaticano per purificare la rete da chi si masturba su internet. C’è una malattia bruttissima che si sta diffondendo e la gente non lo sa, l’onanismo telematico è veramente devastante, ma questo discorso fa parte della stagione due e non possiamo rivelare niente.