Con César Brie ci diamo appuntamento al Teatro Fabbri di Vignola, verso ora di pranzo. Entriamo, e lo troviamo nel buio della sala a dare indicazioni ai suoi attori in prova. Lo spettacolo ha debuttato da tre giorni ma, come sempre accade nel teatro dell'attore e regista argentino, il lavoro sulla scena non finisce mai, la messa a punto dello spettacolo non si chiude col debutto. Karamazov, fra l'altro, porta a compimento il percorso di formazione "il cantiere delle arti", attraverso il quale Brie ha scelto i suoi attori. Partiamo dunque dall'inizio.
Mi era stato chiesto di portare a termine il percorso di formazione "Il cantiere delle arti" presentando uno spettacolo, iniziai allora a cercare del materiale da poter mettere in scena. Mi trovavo in un momento di forte demotivazione personale a causa della fine della mia esperienza in Bolivia con il Teatro de los Andes. Ero indeciso tra un testo classico, come Shakespeare, o uno contemporaneo, per esempio Rafael Spregerbuld che ho incontrato più volte in Argentina. In quel momento stavo valutando la possibilità anche di mettere in scena il Don Chisciotte.
Poi mi sono ricordato di Dostoevskij, che avevo letto a 25 anni. Ripresi I Fratelli Karamazov e, mentre lo rileggevo, capii che sarebbe stato il punto di partenza del mio lavoro. Mi ha toccato nel vivo, perché parlava delle emozioni su cui stavo riflettendo in quel periodo. È un romanzo che contiene un discorso teologico molto duro da comprendere per un lettore contemporaneo, ma che resta un capolavoro della letteratura mondiale. Orientai dunque tutte le attività che svolgevo con i ragazzi, dall'indagine vocale agli esercizi di creazioni di immagini, in vista di una trasposizione dei Karamazov. A metà del seminario elaborai una prima riduzione dell'opera. Dopo essermi preso un mese di pausa, in cui ho ultimato 120 kili di jazz, un mio nuovo monologo, il 20 agosto completai la prima stesura. Avevo ridotto il libro di Dostoevskij a 20.000 parole, che sono state ulteriormente diminuite a 13.000 nella versione attuale (in generale sussiste un rapporto di 20 a 1 con il romanzo). Ciò significa che ho dovuto operare dei cambiamenti significativi, per esempio eliminando tutti i personaggi secondari. In questa operazione, però, era necessario tener conto anche delle esigenze narrative: avrei potuto togliere le figure dei servi, ma mi sarebbero tornate utili per raccontare le vicende in terza persona; anche la madre di Lisa aveva un ruolo marginale, ma avevo bisogno di un personaggio comico; senza la madre, inoltre, non sarebbe stato possibile rappresentare Lisa che parla solamente quando viene afferrata per i capelli e cade a terra ogni volta che vede Aleksej, a simboleggiare gli effetti dell'innamoramento.
In che termini il lavoro di riduzione è stato influenzato dal seminario che stava svolgendo in parallelo?
Diciamo che i due piani si sono alimentati a vicenda. Già dall'inizio avevo in testa quali personaggi assegnare agli attori, quindi ci siamo esercitati in un primo momento creando azioni e metafore liberamente, poi in un secondo momento abbiamo affrontato il testo in maniera diretta.
Per prima cosa ho costruito l'impianto narrativo, utilizzando un processo che amo molto: far presentare un personaggio in terza persona da un altro, ma che al contempo interagisce con lui. Creo in pratica una sovrapposizione di livelli che sembra naturale ma non lo è. Nel racconto cerco di inserire già il rapporto che intercorre fra due figure, le azioni degli attori diventano quindi complementari alle loro parole. Il pubblico non si accorge facilmente di questo meccanismo, e, a dire il vero, neanche i critici; ma sono molto contento, perché significa che ho trovato un metodo che scorre pur essendo complesso.
Lo spettacolo comunque non è terminato, ci sono molti punti su cui devo ancora lavorare. In particolar modo la prima parte manca di immagini potenti, che riescano ad assumere un valore metaforico.
La fatica più consistente è stata tagliare, escogitare dei modi per sintetizzare in poche parole temi che nel romanzo sono sviluppati in capitoli interi. A costo anche di eliminare parti considerate centrali, come può essere La leggenda del grande inquisitore. Faulkner riassume questo concetto con kill your darling!, taglia anche ciò che ti piace, non solo quello che non ti convince (non so perché la gente sia così innamorata di questo pezzo, io ho sempre preferito il capitolo precedente sulla ribellione). Così facendo ho accorpato anche dei personaggi. È il caso di Rakitin, il monaco invidioso e opportunista, che oggi corrisponderebbe al classico ragazzo progressista del PD e che è stato fuso con la figura del servo Smerdjakoff. In particolare la frase «c'è puzza di morto in casa Karamazov» appartiene a Rakitin, non a Smerdjakoff.
Dello spettacolo ci ha colpito molto il suo essere fedele al romanzo ma al tempo stessso l'essere attraversato da una visione che è evidentemente frutto della sua poetica. In cosa, a suo modo di vedere, Dostoevskij è ancora attuale?
La grande capacità di Dostoevskij è quella di non chiudere mai le storie e le tesi che espone. C'è uno studio che è alla base del mio lavoro: il saggio che Bachtin ha iniziato a scrivere nel 1927 e che pare essere anche fra i motivi per cui sia scampato dell'orrore del gulag (Dostoevskij. Poetica e stilistica). Bachtin spiega in modo esemplare il concetto di “romanzo polifonico” e come Dostoevskij riesca a lasciare la sua voce sempre in sordina. Non ha una tesi predefinita, o meglio ce l'ha ma la esclude dal romanzo, facendo in modo che i fili rimangano aperti. La sua grandezza è evidente nei dialoghi: due persone discutono fra loro, ma non si delinea nessun giudizio, sei tu a decidere chi possa aver ragione.
Dostoevskij è il primo a vedere con chiarezza l'orrore delle utopie, il fallimento inevitabile di qualsiasi tentativo di cambiare l'uomo che non si pone la pietà come fondamento. Secondo il suo modo di vedere, la pietà non doveva essere relegata all'azione sociale, ma doveva essere il frutto di un comportamento personale. Certo, fu sostanzialmente un conservatore, un reazionario, ma capì dove avrebbe portato la rivoluzione. Io sono reduce da un'esperienza simile in Boliviana e ora mi trovo fuori dalla Bolivia. Ho lottato in prima persona per il cambiamento e ciò che ho contribuito a raggiungere si sta trasformando nel governo di persone corrotte, in cui la pratica della menzogna è all'ordine del giorno.
Un'altra caratteristica di Dostoevskij è il suo essere grottesco. In effetti, è uno dei fondatori del grottesco. Il processo a Dimitri, per esempio, è descritto mettendo il luce soprattutto il lato mondano. Accusa e difesa litigano in continuazione riguardo alla posizione sociale dell'uno o dell'altro, che sembra pesare di più della ricerca della verità. Non sembra di parlare dei nostri giorni? Ciò che conta maggiormente in un processo è la bravura dell'attore che assume una parte.
Il processo in effetti è una scena cruciale, che in qualche misura risolve la narrazione in un teatrino senza scampo. Ci racconta come è nata la scelta di far muovere gli attori come marionette, nel processo ma non solo?
Il processo, in realtà, nel romanzo non risolve nulla. In questa scena ho cercato di allinearmi all'essenza dell'estetica di Dostoevskij. Ho utilizzato le movenze di pupazzi per imprimere un andamento ritmico alla scena, ma anche per esprimere l'idea che il processo è una farsa. Seppur buffi, i momenti in cui gli attori agiscono come marionette contengono qualcosa di vero. Dostoevskij è un maestro nel provocare il cosiddetto “riso smorzato”, un riso che in fondo ti inquieta. Quando accade, in teatro, per me è una grande conquista, perchè significa che abbiamo portaro lo spettatore in un terreno in cui deve mettersi in discussione.
Una domanda di artigianato registico. Lei sceglie di applicare tanti registri diversi a blocchi narrativi in cui l'andamento sembra essere dettato più dallo stile che dal contenuto. Qual è il criterio che utilizza affinché l'effetto scenico non sovrasti lo sviluppo globale delle vicende?
Innanzitutto, va detto che ho elaborato un testo che è la metonimia dei Karamazov: ho ridotto all'osso ma cercando di mantenere il massimo grado di profondità possibile. C'è un'altra influenza molto forte che mi ha aiutato nella composizione, un'autrice che ho trovato in grande sintonia con il pensiero di Dostoevskij: Simone Weil. Lei esprime per aforismi ciò che Dostoevskij direbbe in una ventina di pagine. La sua opera è stata fondamentale per la costruzione del personaggio dello starec, che nel romanzo pronuncia discorsi molto lunghi, mentre mi serviva che si esprimesse per concetti fulminei. Al momento della sua morte infatti gli metto in bocca alcuni pensieri di cui quattro sono citazioni di Weil: «Il rumore del vento è un oracolo, i cani hanno l'anima, le stelle sono il canto dell'eternità, la bellezza è il mito del vero».
Venendo direttamente alla domanda, ho trovato degli elementi scenici, come le corde, con i quali ho lavorato fin da subito. Uno dei problemi con cui mi confronto maggiormente quando faccio teatro è riuscire a utilizzare qualche aspetto del linguaggio cinematografico, che amo molto. Mi sono chiesto come potessi rovesciare i punti di vista, come potessi “posizionare la videocamera”. La scena dello starec seduto su una panca rovesciata nasce da questa esigenza: per dare l'impressione di una ripresa dall'alto ho coricato gli attori. Anche i pupazzi, che osservano le vicende silenti (tra l'altro creati da Tiziano Fario, già collaboratore di Carmelo Bene) sono un altro elemento presente fin da subito.
Generalmente, posso poi aggiungere di essermi affidato ad alcuni temi presenti nel romanzo, ma che ho scelto di mettere in luce per orientare lo sviluppo del mio racconto. I bambini, che rappresentano una ferita anche per lo spettatore contemporaneo. Penso ai cosiddetti “effetti collaterali” delle guerre che oggi devastano il nostro mondo.
Poi l'amore, che viene visto in tutte le sue forme. C'è l'amore inteso come passione (Dimitrj – Gruschenka), come impossibilità (Ivan – Katerina), come pietà (Lisa - Aleksej). Infine il tema del parricidio.
L'errore più grande che si possa commettere nel trasporre in scena Dostoevskij è l'essere solenni. Dostoevskij non è per niente così. In lui c'è sempre molto humor, che va costantemente ricercato. La sua grandezza sta tutta qui.
Un ultima domanda: cosa chiede, e cosa ha chiesto, agli attori del laboratorio?
Io cerco di spingere l'attore a considerare il personaggio che interpreta come una camicia. La puoi indossare, ma resti sempre te stesso. Per me è fondamentale che, in scena così come nel processo creativo, ci sia quella serenità che permetta di esprimerti in modo naturale. A livello più generale, la ricerca consiste nello scoprire che tipo di attore sei. Molte delle immagini dello spettacolo sono state create dai ragazzi, stimolati da questa ricerca. Capire quanto si è in grado di essere creatori, per potersi permettere di "liberarsi" dal regista.