INTERVISTE > Come un fatto salvifico. Quotidiana.com
Ultimo giorno di Vie 2011. Roberto Scappin e Paola Vannoni ci danno appuntamento in Piazza Grande a Modena, è sabato mattina, la città è nel fermento d'inizio autunno. Entriamo nel bar della piazza e con loro ripercorriamo le tappe di questa "Trilogia dell'inesistente - Esercizi di condizione umana", che al festival si è manifestata con l'ultimo episodio, Grattati e vinci. Come spesso accade, i Quotidiana ascoltano attenti le domande e rispondono formulandone di nuove, in un dialogo che è sempre strumento di conoscenza.
Roberto Scappin: Siamo arrivati alla forma dialogica scarna che contraddistingue la trilogia in seguito a riflessioni successive all’esperienza del progetto Argo Navis di Rimini. Al tempo (2007) presentavamo Medeo, un lavoro ricco di dettagli e linguaggi, da una corporeità spinta fino al video. Eravamo sorretti dalla necessità di denunciare una realtà a noi poco consona. Probabilmente cercavamo di tenere insieme troppi aspetti e altrettante tensioni. Credevamo nell’efficacia di una forma che fosse in grado di contenere molti linguaggi, ma abbiamo avuto una risposta molto critica nei confronti del nostro operato, che abbiamo vissuto a tratti come un attacco personale. Siamo stati spinti a interrogarci sul nostro modo di fare teatro, abbiamo raccolto la critica e reagito positivamente, decidendo di realizzare un lavoro "idiota". Abbandoniamo la presunzione di Medeo, ci siamo detti, ma continuiamo a restare convinti dell’importanza di esporre le nostre idee critiche sul mondo che ci circonda. Abbiamo cercato una forma nuova e, raccogliendo le opinioni delle persone vicine come Fabio Biondi, Silvia Bottiroli, Massimo Paganelli e altri, siamo stati incoraggiati a compiere uno studio sul linguaggio. Abbiamo messo al centro il concetto di "ovvio", e l'empatia che ci attraversa nel quotidiano, prestando attenzione alle risposte del pubblico.
Paola Vannoni: Roberto parla della necessità di essere idioti, con questo termine noi intendiamo l’inefficacia di un lavoro che vuole comunicare a ogni costo degli obiettivi; abbiamo scelto di evitare di sottolineare un messaggio normativo nel testo, non vogliamo dare delle risposte. "Idiota" ha significato, almeno all'inizio, tentare di non darsi degli obiettivi: in questo modo, abbiamo pensato, forse ciò che è dentro di noi emergerà con una forma chiara e i messaggi saranno veicolati anche senza un piano progettato a tavolino. In questo è al centro la forma dialogata che hanno assunto i nostri spettacoli, per dare l'impressione di un qualcosa che fluisce senza eccessiva costruzione. Essere idioti significa puntare ad essere liberi, non farsi schiacciare dalle regole o aspettative.
In Sembra ma non soffro c'è un sottile equilibrio fra il peso esistenziale, per non dire il dramma, e la costante tensione comica. Si tratta di un equilibrio che ricercate?
P.V.: In realtà non operiamo una riflessione in questo senso, è come se la drammaticità delle nostre vite a un certo punto, automaticamente, sfociasse in una sorta di ironia, arrivando all’apice e poi liberandosi in un piano diverso: il culmine non è il grido di dolore, ma la battuta amara. Del resto per parlare del dolore non serve sprofondarci, come non serve il tono tragico, è sempre necessario trovare una via d’uscita che per noi è la comicità. Il disagio non nasce solo dalla grandi afflizioni, troviamo interessante concentrarci sulle piccole violenze, quelle crudeltà di tutti i giorni che se sommate diventano reali minacce: desideriamo metterle a nudo per esorcizzarle, condividendole con lo spettatore.
R.S.: Il comico non è un aspetto sul quale lavoriamo per farlo emergere negli spettacoli; anzi, durante la costruzione del progetto evitiamo la comicità, non la pensiamo pertinente. Il comico viene da sé, spunta come un fatto salvifico. Anche perché ciò che fa ridere me non fa ridere Paola, per esempio.
Quali sono i testi che vi hanno ispirato e che citate durante lo spettacolo?
R.S.: Due autori mi accompagnano da tempo. Simone Weil e il suo trattare temi quale l'amore, la verità, Dio. Mi chiedo spesso come si possa arrivare dedicarsi a un’idea di pensiero profonda ma scollegata dalla realtà come la sua e quale consolazione possa dare questa vertigine di linguaggio, questo scollamento dal reale.
Il secondo autore è David Foster Wallace, trovo alcuni suoi pensieri illuminanti, lo citiamo in un dialogo di Grattati e vinci: «Le persone si guardano con la stessa concentrazione distaccata con cui uno guarda ciò che sta mangiando», è una frase che dice Paola, commentandola aggiungendo: «deve essere stata una persona che ha sofferto molto se vedeva così profondamente».
Quanto lavoro "che non si vede" esiste nei cinquanta minuti dello spettacolo? Quale è il vostro metodo di costruzione e scrittura?
P.V.: Stiamo seduti davanti alla videocamera, aspettando un’idea. In genere è Roberto che parte con una domanda dalla quale poi sviluppiamo un discorso. Questo tipo di sedute, tra le dieci e le quindici per uno spettacolo, ci portano a realizzare un girato di lunga durata, che dovrà poi essere sintetizzato attraverso un lavoro di post-produzione e montaggio molto lungo. Ci mettiamo a rivedere ogni ripresa e selezioniamo le battute che ci sembrano più efficaci e convincenti.
R.S.: Tale maniera di procedere è possibile solo grazie ai mezzi tecnologici, grazie al software di montaggio riusciamo a tagliare e cucire i diversi pezzi, per costruire una bozza iniziale. Eliminiamo ciò che sembra artificiale, come i tentativi che ci appaiono artificiosi di introdurre una boutade, e tratteniamo le parti dove il tempo del dialogo appare naturale e spontaneo. In questo ultimo lavoro io mi sono occupato di tale parte di selezione e montaggio.
P.V.: Nel pre-montaggio scegliamo in base a un'idea di come vorremmo che fosse lo spettacolo, immedesimandoci nei panni di uno spettatore. Cerchiamo di capire cosa vorremmo sentire dal palco e al contempo cosa non vorremmo guardare. In un secondo momento scriviamo il testo e continuiamo a spremere e sintetizzare per arrivare ai 50 minuti di durata.
Quando siamo sul palco e ci riprendiamo è come se il cervello non fosse attivo, andasse in stand by, diventiamo due figure sbattute davanti alla telecamera che si interrogano sul da farsi e ingannano il tempo giocando con le parole, allo stato brado. Nel momento in cui selezioniamo emerge il nostro occhio critico.
R.S.: Mi viene da pensare che anche i reality show potrebbero diventare istruttivi se alle spalle avessero un lavoro di montaggio...
P.V.: ... e se ci fossero le persone giuste, capaci di intessere dialoghi interessanti.
Oltre ai testi che vi hanno ispirato per lo spettacolo, ci sono esperienze artistiche che state attualmente guardando da vicino?
R.S.: Io sono un lettore affezionato de "Lo Straniero" e adesso sto leggendo Troppi Paradisi di Walter Siti, che mi ha fatto innamorare della sua realtà, benché forse ci siano delle descrizioni erotiche compiaciute. Ma è giusto raccontarle in quel modo, credo. È un’esperienza di linguaggio che sento affine, nella quale siamo caduti quasi per caso. Frequento anche letture distensive e "interessanti" come il Venerdì, D di Donna, poi lei si nutre di telefilm.
P.V.: Amo molto i thriller, perché amo l’aspetto umano più sconcertante, la mente deviata. Secondo me si tratta di rappresentazioni estremizzate degli aspetti brutali che appartengono a ognuno di noi: sono convinta che i malati di mente siano persone che per un attimo hanno visto la realtà e sono rimasti fulminati, non hanno potuto sostenere il peso della verità. Come continuare a fissare quando invece si dovrebbe distogliere lo sguardo.
Bernardo Brogi
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