C'est du Chinois, titolo dello spettacolo che Edit Kaldor ha portato al Vie festival 2011, può essere risolto nella lingua italiana con l’espressione “è arabo!”, con cui indichiamo che un linguaggio ci è incomprensibile. Pare proprio che il cinese sia l’emblema dell’enigmaticità linguistica per molti paesi nel mondo: greci, polacchi, russi, spagnoli, portoghesi, ebrei, tedeschi e altri, assumono il cinese come termine di paragone per un qualcosa che difficilmente supera le barriere della comprensione. O, meglio, visto da un altro punto di vista, che forse richiede un’alta concentrazione e uno sforzo mnemonico che rifiutiamo di adottare. Sarà perché li percepiamo glottologicamente distanti, geograficamente “invadenti”, lontani anni luce da noi nell’atteggiamento e nello stile di vita.
La famiglia Yao-Lu, composta da cinque persone, dice di essere a Modena da otto mesi e di parlare solo il mandarino. Attraverso la lettura di qualche riga appositamente tradotta in italiano, invita quindi il pubblico a creare un legame che sia prima di tutto linguistico. È l’invito al superamento della basilare barriera tra popoli che inizia e passa attraverso la conoscenza dei vocaboli spiccioli, di quel poco che basta per cominciare a creare una rete di conoscenza (in questo caso unilaterale).
La lezione inizia proprio con l’insegnamento di termini senza alcuna relazione tra di loro: ciao/ni-hao, tofu, riso cotto/fàn, cioccolato/qiǎo kè lì, fēng shuĭ, birra/pί jiŭ e così via, opportunamente scanditi dai cinque componenti della famiglia che si alternano “alla cattedra”, mostrando gli oggetti di riferimento al pubblico, unici elementi di una scena vuota. Quest’ultimo era stato invitato a ripetere la parola al seguito del suono di un fischio. E così avanti, procedendo in una sessione di “lezioncine” a blocchi, in un climax in salita di complessità verbale, da semplici parole spesso vicine alla fonìa occidentale (un po’ per dire che in fondo c’è qualcosa che ci avvicina e per far rilassare il pubblico impietrito dall’estraneità di quelle figure sul palco) a verbi e frasi che scaturiscono dall’accostamento delle parole già segnalate.
Vengono chiariti i legami famigliari: la coppia di sposi, lei donna incinta dall’animo hippie, lui probabile esperto di kung-fu che in Italia si ritrova a vendere dvd ma con la tendenza a farsi qualche birra di troppo; sua madre, donna di mezza età che scoppia in occasionali momenti di rabbia; il figlio adolescente di quest’ultima, amante della coca-cola e appassionato di sparatorie; infine il padre della giovane sposa, ex attore e presunto giocatore d’azzardo.
Si rivelano le storie dei singoli componenti della famiglia e si delineano i rapporti che li legano. A ciò serve la ripetizione continua dei vocaboli che vengono insegnati dagli attori, la cui chiarezza del gesto e della recitazione – che qui assume la forma della meta-recitazione, nel senso che si recita per insegnare qualcosa, all’interno della recita dello spettacolo – risulta fondamentale per riordinare i tasselli di ciò che è stato già sentito e che concorre a spiegare la storia di questa famiglia. Ci si accorge, allora, che abbiamo molto in comune, più di quello che si pensi. Al di là dei problemi quotidiani, del compiere le stesse azioni, della similarità dei rapporti che teniamo con i nostri cari, ci si accorge che forse la cosa che più ci accomuna è l’avere un passato alle spalle. È l’andamento della vita che ci unisce: ci dona sogni, speranze, vincite ma poi per tutti arrivano le perdite e le rinunce. Questa famiglia si è privata del suo passato e ha affrontato la necessità di costruirsi un futuro altrove, in un altro mondo che tutti rendiamo ostile e impenetrabile. Bisognerebbe forse acquisire la consapevolezza che, per costruire un mondo civile, sarebbe necessario non tanto inglobare l’altro nella propria sfera sociale e culturale ma impegnarsi a conoscere, accettare e rispettare il suo modo di essere e comportarsi, pur essendo distante dal nostro.
Un bel monito, seppur già sentito, ma c’è qualcosa forse che non convince, un tassello mancante, un punto interrogativo nella costruzione della messinscena, nelle dinamiche della struttura dello spettacolo: è chiaro che il fine giustifica i mezzi, per cui non si possono scoprire gli Yao-Lu, e quindi il senso profondo dello spettacolo, senza conoscere le parole chiave essenziali per ricreare le dinamiche famigliari. Ed è anche chiaro che il presentare lo spettacolo come una forma di conferenza/lezione suscita un certo interesse da parte dello spettatore, che all’inizio è divertito dal meccanismo. Peccato allora per una ripetitività che ha come conseguenza la lentezza e la perdita di incisività, con un sottofondo di fastidiosa pesantezza tipica delle lezioni noiose. Complice anche l’ora tarda della rappresentazione, alle 23, come spesso accade quando si è inseriti in un festival ricco di eventi.
Il meccanismo si rompe totalmente sul finale, quando, davanti alla porta d’uscita della sala, la famiglia cinese allestisce un banchetto per la vendita al pubblico di dvd per imparare la lingua – sprone a portar fuori dal teatro l’insegnamento appena ricevuto – ma nessuno si accorge che quella era la fine della lezione. Questo è il momento della rivelazione, dell’apogeo del senso primo e ultimo dello spettacolo: è proprio vero che questi cinesi non riusciamo a capirli.