Kapusvētki è la tradizionale festa dei morti lettone. Alvis Hermanis con il suo Kapusvētki - Graveyard Party - presentato in prima nazionale a Modena durante Vie Scena Contemporanea Festival - ne mette in scena un resoconto corale eseguito da una tradizionale banda funebre.
Come nel precedente Sonja, la narrazione didascalica è sottolineata da contrappunti musicali, qui eseguiti dalla stessa compagnia di attori, trasformati grazie a un anno di lezioni in un ensemble di fiati. Goffe marcette si alternano a una aneddotica che da elenco di usanze sfocia in piccoli impersonali episodi di vita dei personaggi, in un crescendo costantemente pressurizzato. Quest’ultimi sono volutamente a-caratteristici, figurine bidimensionali vestite in modo simile, ma non uguale, sedute simmetricamente, con l’unica donna posta esattamente al centro, quasi a piegare a metà il foglio orizzontale su cui è stata disegnata la banda.
Lo spettacolo, lungi dal muovere realmente lo spettatore verso un confronto diretto con il proprio modo storico e individuale di “vivere la morte”, offre piuttosto un prototipo della società lettone, una ricerca etnografica “virata” in chiave drammaturgica. Infatti, il vero fulcro della scena, sta paradossalmente tutto nelle fotografie in bianco e nero realizzate nel cimitero di Riga da Mārtiņš Grauds e proiettate sul fondale proprio sotto i sopratitoli, una soluzione registica che toglie ogni pressione atmosferica alla scena e sposta lo sguardo sul documento.
La volonta di delimitare un’immagine antropologica del passato è da sempre presente nel teatro di Hermanis, che cerca di trascrivere sul palcoscenico la mobile oralità di una tradizione lettone minacciata dalla modernità, portata prima dalla sovietizzazione e poi dall’ingresso nell’Unione Europea. Sulla scena di Kapusvētki il conflitto con il nuovo che avanza prende la forma definita del sintetizzatore, rivale meccanico degli ottoni della banda funebre, elevato a duplice simbolo del ricordo “campionato” del passato e delle costanti difficoltà del presente.
Forse è per questo che nella narrazione costruita in scena dal New Riga Theatre si occupa sempre del “dimenticato”, dove gli anziani di Long Life e le tombe di Kapusvētki ci parlano di un rimosso comune che ritorna sotto forma di eco antropologico. Sul palco ad un luogo ben definito corrisponde un tempo vacuo, immoto. Sembra di assistere allo scatto fotografico di un trapasso da est ad ovest, da un imprecisato prima a un possibile poi, non dissimile a quello tra vita e morte. Il ricordo personale si fonde nella memoria collettiva, creando una sensazioni di distacco e di coinvolgimento simultanee, ma che possono essere solo parziali, castrate.
Si guarda coi propri occhi attraverso lo sguardo di qualcun’altro, proprio come quando si osserva una vecchia fotografia che ritrae uno sconosciuto.
Jennifer Malvezzi